Sunday, June 29, 2008

L- Georges Simenon: Pioggia Nera

Normandia: i signori Lecoeur, titolari di una piccola ditta di tessuti e confezioni, lavorano senza sosta per mantenere se stessi ed il figlio Jérôme. La loro dura ma felice esistenza, spesa tra il negozio di tessuti ed il piccolo bilocale al piano superiore, viene sconvolta dall’arrivo della zia Valérie, una ricca parente decisa a non passare da sola i suoi ultimi anni di vita; intanto la polizia, occupata nella ricerca dell’anarchico Gaston Rambures, controlla il paese. Jérôme, che passa alla finestra la maggior parte della giornata e segue le operazioni è convinto di conoscere il nascondiglio del ricercato, ma non può e non deve darlo a vedere, o, ne è certo, la vecchia e crudele zia rivelerà il segreto alla polizia per incassare la taglia di 20000 franchi che pende sulla testa di Rambures…

Narrata in prima persona da Jérôme, ormai divenuto adulto(1), la vicenda racchiude, in uno spazio incredibilmente contenuto, molte delle tematiche care al Simenon maturo, dallo studio dei legami familiari (esemplare in questo senso, oltre a Pioggia Nera il romanzo I Pitard), all’analisi psicologica dei personaggi, al osservazione di quell' incapacità di accontentarsi(2), di quella speranza di procurarsi una vita più agiata (e che per questo si ritiene indiscutibilmente migliore) che è carattere permanente della moderna borghesia occidentale.
Il romanzo si apre con il passaggio della famigliola da un livello di operosa e felice quasi-povertà all’insopportabile attesa di un’eredità che, i personaggi sembrano presagirlo, molto probabilmente non arriverà mai, ma al fascino della quale non possono e non vogliono sottrarsi.
La zia Valérie, con la sua gioia di fronte alle altrui disgrazie (dal ripetuto fallimento degli scioperi all’avanzare delle indagini su Rambures), con la sua aria di disgustata superiorità nei confronti di nipote e nuora, e la su avarizia, rappresenta perfettamente e senza mai cadere nel caricaturale la vecchia alta borghesia di campagna (o la bassa nobiltà), sempre sul punto di morire e incapace di dimostrare la propria vitalità se non attraverso un odio cieco ed una aggressività i cui sfoghi sono spesso fortunatamente impotenti(3).
I signori Lecoeur, genitori di Jérôme, rappresentano perfettamente sogni, aspettative e preoccupazioni della piccola borghesia manifatturiera dell’epoca: la voglia di emergere, il disinteresse quasi completo per la politica, la paura della polizia, il timore di restare coinvolti ecc.
Le ambientazioni scure e piovose sono semplicemente meravigliose (ma d’altronde questa è una costante dei romanzi “nordici” del Simenon passato oltre le inchieste di Maigret), i personaggi credibili e ben costruiti, e i dialoghi perfetti.

Il romanzo Pioggia Nera di Georges Simenon è edito da Adelphi.


(1)La dimensione incerta del ricordo d’infanzia e la narrazione diretta da parte di uno dei protagonisti della vicenda, che permetterebbero di uscire dalla dimensione del realismo letterario o giustificare incertezze ed imprecisioni nell'intreccio divengono, nelle mani dell'autore, un pretesto per chiarire le impressioni (pure) del bambino, impermeabili alla possibilità del guadagno, con le interpretazioni del Jérôme adulto, ormai completamente disinteressato all’eredità, e dunque molto più obbiettivo dei genitori nel valutare la crudeltà della zia.
(2)Incapacità che Simenon stesso conosceva bene dato che, come testimoniano i critici, l'autore e sua moglie conducevano una vita molto al di sopra delle loro possibilità.
(3)E frustranti, irrisolventi; si pensi a quando, insoddisfatta delle notizie ricevute dal dottor Livet, la vecchia è costretta a sfogarsi con un secondo atto di crudeltà gratuita, e distrugge gli inerti animaletti dell’impotente nipotino Jérôme.

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Tuesday, June 24, 2008

L- Don DeLillo: I nomi

Inizio anni ’80. James Axton è un americano ex-scrittore freelance trasferitosi ad Atene ed impiegato come analista di rischio per conto di una compagnia assicurativa.
Durante una visita all’isola di Kouros, dove Kathryn e Tap (rispettivamente ex-moglie e figlio di James) si sono stabiliti, l’americano viene a conoscenza di un misterioso delitto rituale: un vecchio isolano è stato ucciso a colpi di martello. L’arma utilizzata, ritrovata sul posto, porta incise sul manico le iniziali della vittima.
Il vecchio Owen Brademas, direttore degli scavi archeologici ai quali Kathryn lavora come volontaria, pensa che il delitto possa essere stato commesso nell’ambito di un misterioso culto i cui adepti, ossessionati dalla conoscenza delle lingue e dei caratteri alfabetici, hanno fatto una breve apparizione sull’isola per poi scomparirne senza lasciare traccia.
La vita di tutti i giorni, spesa senza piacere tra viaggi di lavoro(1) e cene con un folto gruppo di compatrioti (stretti più dal comune sentimento d’esilio che d una vera simpatia o amicizia) allontana Axton dallo svolgimento delle indagini, ma il riconoscimento di un paio di omicidi rituali avvenuti in luoghi geograficamente distanti, collegati al primo dal ricorso al medesimo modus operandi, e la presunzione di aver intuito il disegno dei fanatici, lo costringono a ritornare sul caso; intanto un misterioso greco che professa apertamente idee anti-americane lo accusa di lavorare per la CIA

Scritto nel 1982 al termine di un lungo viaggio compiuto in medio oriente ed India e durante una permanenza in Grecia durata più di tre anni, I nomi svolge, entro la forma del giallo (anche se, poggiando sui reiterati incontri del protagonista con i fedeli del culto che sembrano preludere ad un confronto violento e generano tensione nel lettore, qualcuno ha giustamente parlato di thriller)(2) e, in misura minore, del racconto di spionaggio, una riflessione sul linguaggio complessa e frammentaria, che costringe il lettore ad un duro (e spesso anche poco gratificante) esercizio ermeneutico.
Meravigliosa la scelta degli ambienti, perfetti, con la loro esemplare solitudine, come cornici per la vicenda umana di Axton, ben più riuscita e chiara dell’intreccio giallo, o della (spesso) ostica riflessione e sperimentazione(3) linguistica.

Il romanzo I nomi di Don DeLillo è edito in Italia da Einaudi.



(1) L’attività di James, svolta con l’ausilio di una serie di corrispondenti locali per conto di una compagnia d’assicurazioni americana, consiste nella raccolta e nell’organizzazione di dati inerenti alla stabilità dei paesi mediorientali.
(2) La trama “gialla” del romanzo è un semplice pretesto e non regge al vaglio degli appassionati di enigmistica. Si sconsiglia la lettura dell’opera a chiunque stia cercando il classico romanzetto giallo da leggere sotto l’ombrellone.
(3) Nella ultima sezione, intitolata La prateria, sembra di trovarsi di fronte ad una serie interminabile di refusi desiderosi d’attenzione, ma ecco che, spiegato l’inghippo, si scopre una curiosa (si, questa volta il meccanismo è gratificante) rivelazione sul passato di uno dei personaggi principali dell’opera.

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Tuesday, June 17, 2008

M- Willard Grant Conspiracy: Pilgrim Road

Questo 2008 si sta rivelando un anno memorabile per gli amanti di un certo genere di country/folk dalle tinte fosche e malinconiche: dal mese di gennaio sono usciti, in ordine sparso, il disco The Hungry Saw degli inglesi Tindersticks, il self titled dei norvegesi Madrugada (che, pure sposando suoni spesso più duri ed elettrici, richiamano l’attenzione di tutti gli appassionati del genere con brani come Valley of deception, Our Time Won’t Live That Long, e soprattutto Look Away Lucifer), The Virginia EP dei National, Sunday at Devil Dirt che rinnova la collaborazione tra l’ex Screaming trees Mark Lanegan e la ex Belle et Sebastien Isobel Campbell, il mediocre Home Before Dark di Neil Diamond(1) per citare solo gli esempi più lampanti, ed ora è la volta di questo Pilgrim Road dei Willard Grant Conspiracy.
A due anni dal rumoroso e, ci pare, poco ispirato Let It Roll, uscito nel 2006 a segnare i dieci anni di attività del gruppo, i Willard Grant Conspiracy tornano alle sonorità acustiche con Pilgrim Road.
Gli undici pezzi del nuovo album (dieci più una traccia nascosta) composti da Robert Fisher(2) con la consueta maestria, cantati con la solita voce calda e profonda, arrangiati cedendo qua e là alle tentazioni orchestrali (si pensi, per esempio alla meravigliosa Painter Blue), ma con moderazione, con cura e controllo spesso introvabili anche nei lavori di professionisti ben più blasonati; l’insieme dimostra, per la gioia dei fan, che Robert Fisher e i suoi non sono ancora pronti a fermarsi.
I brani, in equilibrio tra ricerca religiosa/spirituale (es. The Great Deceiver) e rifugio nel mondano (es. The Pugilist) rinnovano e rifondano il legame tra questo particolare sottogenere dell’alternative country o del indie-folk, nato sul finire degli anni ‘90 dall’incrocio della musica di Nick Cave con le ballate orchestrali alla Scott Walker (quello dei tempi d’oro di Scott 2 e Scott Walker sings Jacques Brel), ed un esistenzialismo esteriorizzato, da romanzo (primi tra tutti i Tindersticks, che in un certo senso sono stati i fondatori di questo tipo di sound, nel loro brano Seeweed sembravano ammiccare alla narrativa di Sartre limata nei suoi angoli più spigolosi e dolenti), che, se non garantisce la qualità della scrittura, di certo impedisce di ricadere (o rifugiarsi) nel puro canzonettismo.
Un buon disco firmato da una band ingiustamente ignorata in Italia.



(1)La seconda collaborazione tra Neil Diamond e il produttore Rick Rubin delude un po’ gli amanti di 12 Songs per via del suono preciso ed organizzato: quello che colpiva nell’album precedente, le sonorità grezze, le ballate scarne e rarefatte, piene di tempi morti spezzati all’improvviso da tre note di tromba o di pianoforte, è andato perso in Home Before Dark; le atmosfere malinconiche sono state limate, le canzoni risultano più godibili (e quindi, viene da dire, meno oneste) e fin troppo raffinate.
(2)Tutti tranne la cover del brano Miracle on 8th Street degli American Music Club.

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Tuesday, June 10, 2008

L- Georges Simenon: La pazza di Itteville

Cinquanta chilometri, in piena notte, sotto una pioggia battente, senza riuscire a vedere nient’altro che l’alone sfocato dei fari. Tutto sommato, più che ridicoli dovevamo essere patetici, con il motore che ansimava, la 5 CV che traballava sulle sue ruote deformate e il vento che cercava di strapparci al capote. Il fatto è che G.7 è uno dei pochi ispettori della Polizia giudiziaria ad avere una macchina personale.(1)

L’ispettore G.7 (così soprannominato dai suoi colleghi “per via dei capelli rossi, che fanno pensare al colore dei taxi della compagnia G.7” (2)) viene convocato, nel cuore della notte, ad Itteville, cinquanta chilometri fuori Parigi, per indagare su un imprecisato caso di omicidio; nonostante il maltempo e l’ora tarda si mette in viaggio subito, e porta con se un amico scrittore.
Arrivati sul posto, ispettore e compare, apprendono dalla voce sconvolta di una guardia di provincia che il primo cadavere (notato da un testimone di passaggio in bicicletta) è stato sostituito da un secondo uomo. Quando anche la seconda salma scompare dall’obitorio l’ispettore capisce che se vuole risolvere il caso deve agire alla svelta. I suoi sospetti cadono sul direttore della clinica del paese e sulla bionda Marthe Templier, una donna fatale e un po’ folle che nasconde, dietro l’apparenza da fragile ragazza dell’ est, un terribile segreto…

Il romanzo, narrato in prima persona dal personaggio dello scrittore, è stato scritto nel 1931 come titolo inaugurale della serie Photo-Texte, (una collezione di romanzi corredati da immagini firmate dai più eminenti fotografi contemporanei) che, a dispetto della formula innovativa, non ebbe successo, e si chiuse, come si era aperta, con il volume La pazza di Itteville. Simenon che nel frattempo aveva aperto la serie di inchieste del commissario Maigret (Pietr il lettone era uscito il 20 gennaio dello stesso anno), si vide costretto ad abbandonare il personaggio di G.7.
Pur essendo opera molto breve e “minore”, La pazza di Itteville già dimostra la maestria stilistica del Simenon maturo (soprattutto nelle evocative, nebbiose, descrizioni ambientali). Particolare la scelta di affiancare lo scrittore (narratore intra-diegetico e co-protagonista) all’ispettore G.7 (ricorda l’accoppiata Sherlock Holmes/Watson, tra le altre), che, insieme alla curiosa meccanica del delitto e dell’occultamento del cadavere (di gusto quasi enigmistico), ed allo scarso approfondimento della psicologia dei personaggi dimostra il carattere “preparatorio” dell’opera, quasi un raccordo tra il giallo classico e le più mature (anche se la prima, come si è detto è contemporanea ) ed innovative inchieste di Maigret.

Il romanzo breve La pazza di Itteville di Georges Simenon è edito in Italia da Adelphi.

(1)Georges Simenon, La pazza di Itteville, Adelphi, Milano 2008, p. 11.
(2)Ivi, p. 13.


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Sunday, June 08, 2008

L- Cormac McCarhty: Sunset Limited

BIANCO Ok. Forse ha ragione. Va bene, ecco le notizie che ho da darle, reverendo. Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale. Kafka coi controfiocchi.(1)

New York. Un quartiere nero. Un piccolo bilocale composto di cucina e camera da letto in un caseggiato popolare. All’interno due uomini, uno bianco ed uno nero, discutono. Il nero, un ex detenuto che, duramente ferito nel corso di una rissa in galera, e ricoverato in infermeria, ha sentito la voce di Dio, ha appena sventato un tentativo di suicidio del bianco, un professore, deciso a gettarsi sotto al treno “Sunset Limited”(2) della metropolitana di New York. I due uomini, un ateo e un cristiano, discutono, ognuno arroccato sulle proprie posizioni, entrambi poco interessati ad ascoltare, incapaci di qualunque comunicazione e progresso, come in una maieutica spezzata e che infatti non sortisce alcun effetto. Seduti e quasi immobili, come a voler testimoniare l’inutilità di ogni azione(3), il bianco e il nero discutono di teodicea, irremovibili dalle loro posizioni filosofiche assolute ed antitetiche, da manichei (non a caso sono uno bianco ed uno nero(4)), e ripropongono il novecentesco (ma tutt’altro che esaurito) tema della crisi della società borghese, e se cultura (quella razionalista ed occidentale) e fede hanno assunto, nel secolo scorso, connotazioni positive come possibili rimedi al nulla e al male, proiettate nell’universo pessimista e iper-oggettivo (non a caso lo scrittore ha passato i suoi ultimi dieci o quindici anni a discutere con gli scienziati del Santa Fe Institute) di McCarthy, vengono entrambe svuotate da ogni proprietà salvifica e ridotte a livello di semplici visioni del mondo, più o meno oneste(5) e consolanti in maniera inversamente proporzionale, ma ugualmente inutili di fronte alla "realtà delle cose".
Opera che si vorrebbe brillante e disturbante, elegante e fastidiosa, ma che in realtà tratta con una profondità insufficiente questioni molto complesse, Sunset Limited è un racconto dalla palese intenzione filosofica, o, se si vuole, un moderno, ma debole, dialogo platonico che si chiude decretando la fine del mondo delle idee in favore di una dolorosa immanenza alla quale ci si sottrae solamente attraverso la morte.
Curioso che a veicolare una simile visione del mondo sia un americano più che settant'enne apparentemente baciato dalla fortuna...

Scritto nel 2006 come pièce teatrale(6) o “romanzo in forma drammatica”, e finora inedito in Italia, Sunset Limited è in uscita in questi giorni per Einaudi.


(1) Cormac McCarthy, Sunset Limited, Einaudi, Torino 2008, p. 113.
(2)Il nome deriva da un treno che compiva la traversata coast to coast, e ha ragione Dianne C. Luce, a sottolineare nella presentazione dell’opera sul sito ufficiale di McCarthy (leggibile qui) l’aspetto simbolico della questione: “Metaphorically,” si legge nel suo testo, “to ride the sunset limited is to take the mythic train west, […] to sail over the edge of the world” [Metaforicamente, viaggiare sul Sunset Limited significa prendere il mitico treno per l’ovest, […] scavalcare il limite del mondo].
(3)Il bianco protagonista di questo dramma dal sapore vagamente beckettiano sembra la versione aggiornata degli eroi immobili della letteratura novecentesca della crisi: laddove i personaggi di questa si trovavano intrappolati ed impossibilitati a combattere contro una realtà irrazionale (Kafka, Svevo, Joyce ecc. ) e finivano schiacciati da un destino anonimo e soverchiante, il “professore” di Sunset Limited, che è erede della tradizione culturale dell’occidente, ha letto Kafka (e non solo), sa che combattere è inutile, e dunque cerca la fuga nella morte.
(4)Non vi è traccia, in Sunset Limited, di riflessione sulla razza. La presenza del nero funziona secondo il duplice rispetto stilistico e tematico: da un lato permette all’autore di rendere più interessante e vario il dialogo, ricorrendo alle espressioni dialettali ed alla curiosa sintassi dell’americano parlato negli stati del sud (varietà che in italiano si riduce al semplice contrasto tra registro “alto” e “basso” sul piano linguistico-lessicale, e in vere e proprie sgrammaticature, che diventano persino disturbanti, sul piano sintattico), dall'altro sottolinea, riga dopo riga, la distanza tra le due posizioni filosofiche, dandogli una connotazione grafica, visiva.
(5)La propensione dell’autore per la posizione del professore appare lampante.
(6)Le prime rappresentazioni di Sunset Limited sono state a Chicago dove, l’opera ha conquistato, con il suo carattere moderno, quasi sperimentale (si noti, per esempio, l’assoluta mancanza di azione) l’interesse delle più blasonate compagnie Off Brodway.


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Tuesday, June 03, 2008

L -Joe R. Lansdale: La morte ci sfida

Texas Orientale. Gli abitanti di Mud Creek(1) si sono macchiati di un’atroce delitto: aizzati dal violento e razzista Caleb hanno giustiziato un guaritore indiano e la sua donna. Maledetti dall'innocente sciamano in punto di morte, i paesani cominciano a trasformarsi in zombie assetati di sangue. Il paese sembra irrimediabilmente condannato, ma a salvare la situazione arriva il reverendo Jeb Mercer, “un predicatore alto e magro, coperto di polvere”(2), seduto in groppa a una giumenta con un ascesso sul posteriore, “vestito di nero da capo a piedi e armato di un revolver Colt Navy .36 modificato”(3) infilato nella fascia nera stretta intorno alla vita.

Se è vero, come dichiara l’autore nella dedica, che "questo non è un libro di ‘grandi riflessioni’" ma piuttosto è come i film dell’orrore che si vedevano "alla televisione la sera tardi"(4), la maestria di Lansdale sta proprio nel saper infondere ai suoi romanzi brevi, ultracompatti e senza pretese (La morte ci sfida come L’anno dell’uragano, Bubba Ho-tep ecc.), lo stesso incredibile potenziale d’intrattenimento dei loro corrispondenti cinematografici.
A prescindere dalla frivolezza assoluta degli argomenti (che dire altrimenti di un intreccio che sembra nato dall’incrocio di un western di serie B con un horror di serie Z?), la facilità ed il piacere della scrittura che balzano fuori da ogni pagina, la limpidezza dei dialoghi (precisi e naturali nonostante l’irrealtà della situazioni affrontate) l’abilità nello stendere descrizioni stilizzate ma accurate, potrebbero sembrare, se Lansdale non fosse così inguaribilmente ottimista ed incoraggiante nei confronti dei suoi colleghi, veri e propri insulti ad ogni autore vessato dall’esercizio della letteratura.
Indimenticabile la sparatoria finale, che apre la strada ad un epilogo ben meno accomodante di quanto il lettore non si aspetti.

Nel mese di marzo 2008 la casa editrice Fanucci ha pubblicato nella quasi neonata serie “vintage” il romanzo western inedito Il carro magico, scritto da Joe Lansdale negli anni ’80. Alla prima edizione ne è seguita una seconda (senza apparenti modifiche) uscita giusto in tempo per essere presentata al salone del libro di Torino. Proseguendo la stessa, evidentemente fruttuosa, operazione di recupero degli inediti di Lansdale, Fanucci propone ora questo breve ma godibilissimo La morte ci sfida datato 1986, presentato a Roma il 28 Maggio(5). Nonostante il carattere palesemente commerciale della manovra (una casa editrice è pur sempre un’impresa…) i lettori non possono far altro che gioire della scelta editoriale, anche perché il libro è apparso direttamente in edizione economica. Peccato per la traduzione, che qua e là si perde in piccole (ma fastidiose) imprecisioni, come se fosse stata commissionata e svolta in fretta e furia.

Il romanzo La morte ci sfida di Joe R. Lansdale è edito in Italia da Fanucci.


(1)Mud Creek è un luogo ricorrente nella narrativa di Joe R. Lansdale: qui si svolgono infatti, oltre ai western La morte ci sfida e Il carro magico, il grottesco Bubba Ho-Tep, il racconto horror La notte che si persero il film dell'orrore (in Italia nell’antologia Maneggiare con cura, edita da Fanucci) ecc.
(2) Joe R. Lansdale, La morte ci sfida, Fanucci, Roma 2008, p. 23.
(3)Ibidem.
(4)Ivi. p. 9.
(5)L’autore aveva concesso una piccola anteprima nel corso della trasmissione radiofonica Farenheit andata in onda il 27 maggio su Rai radio 3. (Gli interessati possono ascoltare il Podcast e leggere alcuni estratti dell'intervista qui).

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Sunday, June 01, 2008

L- Derek Raymond: E morì ad occhi aperti

Non facciamo altro che scrutare facce di cadaveri, passare al setaccio le loro stanze, soppesare i possibili moventi di amici, se ce ne sono, amanti e avversari. Ma, diversamente dalla maggioranza dei poliziotti, non ci lamentiamo delle carenze di organico, non ci preoccupiamo se il caso su cui indaghiamo non compare sui giornali né diventa una caccia all’uomo di rilevanza nazionale. […] Nessun omicidio è fortuito o trascurabile per noi, anche se in una città come questa avvengono omicidi uno dietro l’altro.(1)

Il corpo di un uomo brutalmente torturato ed ucciso viene ritrovato in una zona periferica di Londra.
La vittima, alla quale sono stati spezzati gli arti e sono stati inferti numerosi, dolorosissimi, colpi prima della morte, è stranamente rimasta con gli occhi aperti, come a voler controllare l’operato dei propri carnefici.
Ad indagare sul caso, considerato del tutto privo di interesse e risonanza mediatica, viene inviato un anonimo sergente della sezione A14, delitti irrisolti, stazione della Factory.
Disgustato dalla brutalità del delitto, e stretto in un rapporto empatico con la vittima (anche per via dell’ascolto ripetuto di una sorta di audio-diario inciso da Staniland nei giorni precedenti alla morte), l'investigatore si tuffa negli sporchi bassifondi londinesi bazzicati dalla vittima e ripercorre le ultime tappe di una misera esistenza…

Lo stile di Raymond è duro e secco; i personaggi sono brutali, folli, distrutti, cattivi, reali.
La critica, facendo leva sulla riflessione esistenziale che attraversa, occultata dietro il facile pretesto della letteratura di genere, le opere di Raymond, ha giustamente indicato l’influenza del Sartre narratore(2) sull’autore dei romanzi della “Factory”. Poliziesco esistenzialista, costruito con un andamento lento ma inesorabile come quello d’un orologio ed un disinteresse quasi assoluto per la detection, pieno di un senso di ingiustizia e di inutilità difficilmente rintracciabile anche tra i più amari e pregevoli romanzi di genere, E morì a occhi aperti, è uno dei romanzi essenziali all’interno del vasto e variegato (ma ahimè composto per lo più da prodotti dichiaratamente commerciali e assolutamente mediocri) panorama del noir europeo .

E morì a occhi aperti di Derek Raymond è il primo dei romanzi della Factory, tutti editi in Italia da Meridiano Zero.


(1)Derek Raymond, E morì a occhi aperti, Meridiano Zero, Padova 1998, p. 9.
(2)Questa influenza è particolarmente evidente in E morì a occhi aperti, nel quale le registrazioni della vittima (e coprotagonista) Charlie Staniland, la cui trascrizione si alterna alle indagini facendo da contrappunto alla narrazione, sembrano uscite direttamente da La nausea. Se Antoine Roquentin apriva il suo resoconto con "Le mieux serait d'écrire les événements au jour le jour. Tenir un journal pour y voir clair. [...] Il faut dire comment je vois cette table, la rue, les gens, mon paquet de tabac, puisque c'est cela qui a changé" (Jean Paul Sartre, La nausée, Gallimard, Parigi 2007 )[La cosa migliore sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. [...] Bisogna che dica come vedo questo tavolo, la strada, la gente, il mio pacchetto di tabacco, dato che è quello che è cambiato], Charlie Staniland, dichiarando che “l’ideale sarebbe riuscire a registrare tutto ciò che succede all’ultimo istante e dopo” (Derek Raymond, E morì a occhi aperti, Meridiano Zero, Padova 1998, p. 21), afferma la medesima necessità di tenere traccia di un cambiamento sottile ma essenziale, che lo ha portato a sostituire una serie di comode ipocrisie con una più lucida e disincantata visione del mondo.

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