Monday, February 27, 2006

C-James Mangold: Walk The Line- Quando l’amore brucia l'anima

Nella storia della musica country Johnny Cash occupa certamente un posto di favore, è infatti uno dei pochi artisti del genere ad aver ottenuto fama internazionale.
Il film, tratto dall’autobiografia “The Man In Black” e mediocremente diretto da James Mangold, tratteggia l’evoluzione di Johnny Cash soffermandosi sull’aspetto umano, dalla morte del fratello alla partenza per la Germania, dall’acquisto della prima chitarra al matrimonio, dall’incontro con Sam Phillips della Sun Record Company ai primi concerti, la droga, il divorzio, l’incontro con June Carter ed infine la disintossicazione ed il secondo matrimonio.
Ovviamente, prendendo spunto da un’ autobiografia, e soffermandosi su questi aspetti personali ed intimi, il film non riesce a trasmettere un’idea precisa della grandezza del suo protagonista.
Per essere considerato un “dramma-musicale”, nel film si canta poco e si ascolta poca musica, quello che è interessante (oltre all’entrare in contatto con il già citato aspetto intimo del cantante e farlo attraverso le sue parole), è assistere ad un bel frammento di storia del Rock ‘n Roll riprodotto sugli schermi (sia pure con l’uso di attori molto poco somiglianti ad i personaggi rappresentati).
Interessante la scelta di far ri-cantare i brani agli attori (in effetti nel caso dei due protagonisti è stata privilegiata la capacità canora rispetto alla somiglianza reale con i personaggi ritratti) e belle le musiche di T-Bone Burnett, anche se l’inserimento nel film di qualche pezzo realmente cantato da Johnny Cash (fatta eccezione per quello che viene trasmesso alla radio e che sveglia una June Carter addormentata non ce ne sono) non avrebbe guastato.
Un film convincente (per merito del soggetto e di quell’ alone quasi mitico che circonda la figura di Johnny Cash e non grazie alla regia, decisamente non illuminata) che pecca forse nel calcare la mano sulla dipendenza da droga e alcool (come a voler trasformare a forza Johnny Cash in un “maledetto” redento per mezzo dell’amore); buone le interpretazioni dei due protagonisti (Joaquin Phoenix e Reese Whiterspoon) e le loro performance canore, pessima la scelta di tradurre il titolo.

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Wednesday, February 22, 2006

M- Neil Diamond: 12 Songs


Neil Diamond, la consueta voce calda resa profonda e leggermente incupita dal tempo, torna a stupire con il suo “12 Songs”; gli arrangiamenti, curati secondo la brevettata ricetta “Rick Rubin” (che ridiede lustro anche a Johnny Cash nelle sue “American Recordings”) si rivelano assolutamente eccezionali, costruiti come sono su uno svuotamento dell’accompagnamento (anche laddove intervengono molti strumenti) in favore di una voce che è protagonista assoluta, e sostiene l’intero album.
Dall’incontro Diamond-Rubin nasce un album di eleganti e raffinate torch-songs che, oltre a rappresentare il punto più alto della produzione diamondiana dagli anni 80 ad oggi, meritano di restare inscritte nella storia della musica d’autore.
Nell’insieme, risulta deludente solo “we”, pezzo ironico nel testo e nell’arrangiamento (quasi un brano da cabaret) che stona decisamente con le altre 11 ballate d’amore e d’abbandono.
Da segnalare le struggenti “What’s it gonna be” e “Im on to you” (forse il pezzo meglio arrangiato dell’intero disco).

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C- Fernando Di Leo: I ragazzi del massacro


Una classe di adolescenti emarginati e violenti stupra e uccide l’insegnante durante una lezione; per la questura di Milano si tratta di delinquenza giovanile, e tutti gli studenti vengono arrestati, ma il caso non sembra così semplice a Duca Lamberti, deciso ad andare fino in fondo.
Quando il giovane Fiorello Grassi, studente indifeso e “diverso” si lascia sfuggire una mezza confessione, a Duca Lamberti non resta alcun dubbio, non è tutta opera dei ragazzi, ma chi si nasconde dietro a questo scempio?

Nato dalla penna di Giorgio Scerbanenco, “I ragazzi del massacro” è portato sugli schermi da Fernando Di Leo, che forse calca un po’ la mano sull’ impotenza e la lentezza della polizia, sottoposta a severi regolamenti e burocrazia, e spesso incapace di far fronte legalmente alla violenza diffusa negli ambienti della piccola criminalità (tema assolutamente ricorrente e forse abusato nel genere oggi definito “poliziottesco”, dai film di Umberto Lenzi a quelli di Stelvio Massi ecc.).
Buona l’interpretazione di Pier Paolo Capponi, nonostante il personaggio di Duca Lamberti (che sulla carta è decisamente più contrastato e meno sicuro di se’ pur senza darlo a vedere) risulti leggermente appiattito nel passaggio dal romanzo al soggetto. Film non molto ispirato e non a livello dei più noti "Milano Calibro 9" e "La Mala Ordina", "I ragazzi del massacro" tende ad annullare lo spessore di molti personaggi eliminandone la dimensione psicologica (sostituita qua e là da una spruzzata di sociologia spicciola).
Ottime le due scene di violenza (entrambe rappresentanti la morte della maestra), molto confuse e a tratti fastidiose.
Da segnalare anche il commento musicale, firmato Silvano Spadaccini, che raggiunge il suo apice (risultando assolutamente inquietante) nella sequenza della morte della maestra (rivissuta attraverso gli occhi di un Carolino pugnalato e tremante).
Un film che non rappresenta l'apice della produzione del regista, per via del soggetto che sembra troppo statico e mal trasportato, piuttosto che per la tecnica cinematografica.

“I ragazzi del massacro” è stato recentemente rimasterizzato e ripubblicato in dvd per Rarovideo/Nocturno Cinema.

Il romanzo “I ragazzi del massacro” di G. Scerbanenco è edito da Garzanti.

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Thursday, February 16, 2006

C- Lars Von Trier: L’elemento del crimine

Una macchina da presa si muove incerta , nervosa (con movimenti lunghi, angolazioni eccessive e frequenti scatti) in un mondo oscuro e crudele, sgranato e seppiato; l’elemento del crimine è questo, prima ancora della caccia ad un serial killer rivissuta attraverso gli occhi di un uomo ipnotizzato.

L’agente Fisher, un poliziotto tedesco che ha passato gli ultimi tredici anni al Cairo viene richiamato in Europa per indagare su un serial killer; seguirà il metodo descritto da Osborne, (suo maestro e un tempo eminente criminologo, ormai invecchiato e impazzito) nel testo “l’elemento del crimine” (un tempo in uso presso le forze di polizia, ma ormai screditato), che propone l’identificazione psicologica del detective con il criminale.
L’uomo si getta sulle tracce dell’assassino, ma il passo che porta dall’identificazione psicologica alla follia criminale è breve…


Le immagini sono evocate dalla voce off del protagonista (nella tradizione del noir classico cinematografico e non) ormai tornato al Cairo e sottoposto ad una seduta di ipnosi.
La Germania che egli ricordava non esiste più, tutto è ridotto ad una superficie semideserta ornata qua e là da uno specchio d’acqua stagnante o da un cumulo di macerie, su cui si muovono una serie di folli personaggi quasi privi di vita.
La crudeltà, la follia, la menzogna, la scarsissima emotività (si pensi alla sequenza del suicidio dal ponte, così priva della benché minima partecipazione da parte del suicida stesso), sono tratti comuni a tutti gli abitanti di questo paese a-storico e anti-storico (alle possibili collocazioni “post-apocalittiche” si sovrappongono strumenti e veicoli da robivecchi) rafforzati graficamente da un’immagine dominata dal nero e dal “poco visibile”.
Le sovrimpressioni, talvolta brutali sono d’effetto e non nuocciono ad un film che fa della frammentarietà, e della giustapposizione di immagini apparentemente prive di relazione, i suoi punti di forza.
Il senso di oppressione onnipresente, nelle scene d’interno e d’esterno è vissuto anche dai personaggi; ne sono testimonianza l’immagine reiterata della finestra frantumata attraverso la quale alcuni personaggi sembrano voler fuoriuscire dalla loro situazione, o quella dei colpi di pistola sparati (in particolare da Osborne prima e da Fisher poi), sempre attraverso la finestra, come a voler ammazzare la notte.
Lo stile graficamente curato (sia pure, con un gusto tutto antidecorativo) è quanto di più lontano ci si possa aspettare dai successivi, ascetici, esercizi del “dogma”; ne risulta un film disturbante, complesso e non strutturato, perso tra mille citazioni dal cinema classico (si pensi alla sequenza con vertiginoso movimento a spirale della macchina da presa che strizza palesemente l’occhio a Hitchcock) e un gusto quasi fastidioso per gli inserti, per i particolari, e per i dettagli non necessariamente giustificati dall’andamento di un intreccio alquanto confuso.
Questo film datato 1984, che rappresenta forse uno dei punti più interessanti della produzione di L. Von Trier è stato recentemente ripubblicato da Rarovideo.

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Monday, February 13, 2006

L- Paul Auster: Gioco Suicida


Max Klein è un investigatore privato appassionato d’arte e pieno di problemi familiari chiamato a proteggere George Chapman, un’ ex campione di baseball che ha perso una gamba in un incidente d’auto.
“Chip” Contini, amico comune dei due è un avvocato in lotta con figura del padre Victor Contini, un gangster invecchiato, ma non innocuo.
Judy Chapman è la bella moglie (infedele ma onesta) di George Chapman.
Il tenente Grimes è uno sbirro di città, cinico e sbrigativo.
Il capitano Gorinsky è uno poliziotto di paese, violento e ottuso.
Quando George Chapman viene trovato morto, la polizia incolpa sua moglie, ma è lei la colpevole? E quello che ha reso Chapman invalido, è stato davvero un incidente?

Dalla penna sempre fortunata di Paul Auster, questa breve opera (pubblicata sotto lo pseudonimo di “Paul Benjamin”)è uno splendido omaggio al noir classico costruito con uno stile, e un intreccio colmi di riferimenti a Chandler.
La modernità ha inciso su questo piccolo capolavoro nient’altro che dei leggeri solchi, nell’aria ironica con cui viene affrontata la definizione di alcuni personaggi, e nella maggiore propensione all’introspezione del protagonista/narratore rispetto ai narratori del periodo classico.
Se Marlowe è reticente, e non sembra avere un passato sentimentale, o una vita privata, il presente di Max Klein è decisamente segnato dal divorzio e dalla parziale perdita della moglie Cathy, e del figlio.
Il finale, “semi-aperto” e privo di quella propaggine esplicativa che rischia così spesso di turbare l’armonia dei noir classici, vede un Max Klein agguerrito, e deciso ad andare avanti, in un suo personale “gioco suicida”.

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L- John Steinbeck: La corriera stravagante



Un gruppo di viaggiatori di provenienza ed estrazione sociale differente si trova bloccato in una piccola area di servizio californiana per via di un guasto al differenziale di una corriera; immediatamente la lente dell’autore ingigantisce le piccole questioni dei passeggeri scavando nel carattere,nel passato, nelle aspettative e nelle speranze di ognuno.
La corriera, riparata, riparte verso la sua destinazione, ma, per via della pioggia è destinata a rimanere impantanata prolungando la forzata convivenza di questi personaggi vecchi o giovani, allegri o disperati, all’apice della loro vitalità o in punto di morte.
L’intreccio inesistente lascia spazio all’indagine dei personaggi, molto più accurata qui che nelle opere più note di Steinbeck; il linguaggio è sempre ottimo, ma forse in quest’opera, così priva di avvenimenti, le descrizioni ambientali molto estese risultano a volte eccessive.
L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1947, fu accolta con meraviglia, risulta infatti priva dei motivi politici ricorrenti nella produzione steinbeckiana, e di quell’eroismo personale tutto americano che di solito è tratto distintivo dei suoi protagonisti.
Da segnalare i personaggi indimenticabili di “Juan”, “Fignolo/Kit” e “Van Brunt”.

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