Sunday, December 27, 2009

NonSoloNoir saluta Vic Chesnutt

Si è spento venerdì 25 dicembre in una camera d'ospedale di Athens, Georgia, il quarantacinquenne cantautore americano Vic Chesnutt. Il decesso, avvenuto alle 14:59, è stato confermato dagli addetti stampa dell'etichetta discografica "Constellation Records" attraverso il sito ufficiale(1). I fan erano già col fiato sospeso dalle ultime ore di giovedì 24: la notizia del ricovero d'emergenza di Chesuntt, in coma in seguito a un tentativo di suicidio, era infatti stata diffusa su twitter da una delle più strette collaboratrici del cantautore. Ridotto su una sedia a rotelle da un incidente automobilistico all'età di 18 anni, nel 1983, Chesnutt non aveva mai fatto mistero di essere "maturato" attraverso il dolore ed il trauma; il suo tormentato rapporto con la morte, poi, era già noto: in Flirted with you all my life, brano dalle atmosfere stranamente "leggere", sopratutto se inserito nella fosca cornice dell'album "At The Cut" (Constellation Records, settembre 2009), il cantautore aveva confessato al pubblico di aver sfiorato il suicidio.
Poco noto in Italia, ma giustamente apprezzato, a livello internazionale, da una nutrita schiera di intenditori, Chesnutt era una delle voci più sensibili, oneste e personali nel vasto panorama dell'indie-folk e del nuovo cantautorato americano.
Qui su NonSoloNoir vogliamo salutarlo così, con le note intime di Flirted with you all my life, e con le dichiarazioni del leader dei R.E.M. Michael Stipe: «Abbiamo perso uno dei nostri grandi uomini. Ma le sue canzoni e la sua storia rimangono»(2).





(1) Il comunicato è leggibile qui.
(2) Cfr. http://cstrecords.com/.

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Friday, December 25, 2009

Buon Natale a tutti i lettori...


NonSoloNoir augura buon natale a tutti i lettori.


Tuesday, December 22, 2009

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza: Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine delle stragi di stato

Enrico Mattei; Mauro De Mauro; Pier Paolo Pasolini.
Tre nomi, tre volti popolari, entrati indelebilmente nella nostra memoria collettiva; tre idee, tre storie, tre biografie profondamente differenti, accomunate solo dalla violenza dell'epilogo.
Solo? Forse no: Enrico Mattei è morto a Bascapè, provincia di Pavia, il 27 ottobre 1962, in seguito ad un “misterioso incidente” aereo; Il giornalista Mauro de Mauro è scomparso a Palermo, il 16 settembre 1970, accompagnato da una serie di “misteriosi” individui; Pier Paolo Pasolini è stato assassinato il 2 novembre 1975, nel corso di una “misteriosa” lite. Il suo cadavere martoriato è stato ritrovato all’Idroscalo di Ostia.
Non è solo la fine violenta, dunque, ad accomunare i tre personaggi, ma anche il mistero che avvolge le circostanze della loro morte; mistero che, come spesso è accaduto nell’Italia degli ultimi settant’anni, è in realtà riducibile a una serie di avvenimenti "quasi noti", legalmente non provabili per effetto di una serie di mistificazioni, alterazioni, depistaggi ecc.
E nel caso dei tre personaggi in questione, il collegamento non è poi così difficile; basta partire dal primo delitto, e porsi la ben nota domanda di senechiana ascendenza: Cui prodest?
A chi avrebbe giovato la morte di Enrico Mattei? Agli americani? Certo. Alle “sette sorelle”? Sicuramente. Ma la morte dell’allora numero uno dell’Eni, avrebbe (e ha) fatto molto comodo anche a Eugenio Cefis, “il corazziere”, ex partigiano in contatto con gli americani (e con la CIA), amico di Fanfani, probabile fondatore della P2, numero due dell'ente, misteriosamente espulso nel 1962, per volontà di Mattei, ma rientrato in pompa magna subito dopo l'incidente di Bascapè.
E, si dà il caso, che proprio sulla morte dello storico presidente dell’Eni, e sui giorni del suo ultimo soggiorno catanese, stesse indagando, su commissione del regista Francesco Rosi, pronto a girare il film Il caso Mattei, il giornalista Mauro De Mauro. Pare, anzi, che pochi giorni prima della scomparsa, avvenuta il 16 settembre 1970 sotto casa sua, avesse scoperto “qualcosa di grosso”, (qualcosa su Cefis?) e che lo avesse rivelato a un noto avvocato della zona... l’avvocato sbagliato, a quanto pare.
Si aggiunga a questo, che su Mattei, e anzi, meglio, su Cefis (trasfigurato nel "Troya" che fa da protagonista al romanzo incompiuto Petrolio) stava lavorando anche Pasolini, al momento della sua morte, e che le voci sul carattere “politico” della lite dell’idroscalo, in circolazione fin dalla morte del poeta, il 2 novembre 1975, non si sono mai spente.









Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza raccontano, con piglio piacevolmente romanzesco e penna affilata, pungente, talvolta ironica, sempre lucida, una storia profondamente italiana, nel senso negativo del termine: una storia di verità coperte e camuffate, di insabbiamenti, depistaggi e menzogne, di false accuse e calunnie; una storia i cui attori sono politici, mafiosi, avvocati, faccendieri, malavitosi romani legati agli ambienti della destra eversiva, uomini dei servizi, amministratori locali, “stimati professionisti”, rappresentanti di forze politiche tutt’ora in campo, complici di una serie di delitti che legalmente irrisolti(1), ma effettivamente insabbiati per oltre quarant’anni.
E la ricostruzione funziona, non solo in virtù dell’incredibile quantità di documenti proposti a sostegno della tesi, ma anche grazie a una serie di calibrati passaggi dai modi del reportage alla narrazione in chiave di fiction, dall’intervista alla ricostruzione storica, che "costringono" il lettore, convinto e coinvolto, a seguire il “filo nero come il petrolio” che “lega gli omicidi di Mattei, De Mauro e Pasolini”(2).

Il saggio Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine delle stragi di stato, di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, è edito da Chiarelettere.



(1)E c'è ancora chi avanza dei dubbi, e parla di "incidente" e "coincidenze": secondo la sentenza di archiviazione firmata dal gip di Pavia Fabio Lambertucci il 17 marzo 2004, per esempio, l'inchiesta del P.M. Calia (ad oggi l'indagine più completa sul caso Mattei) permette, al massimo, la formulazione di "un giudizio di mera compatibilità con l'ipotesi
 delittuosa"...
(2)Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine delle stragi di stato, Chiarelettere, Milano 2009, p. 276.

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Monday, December 21, 2009

Guano Padano: Guano Padano


Il nord est come il far west, con il Po per Mississippi, i veneti per rednecks, i secessionisti della lega come confederati rincoglioniti? Pare proprio di sì, e, andando avanti di questo passo, anche i più scettici dovranno deporre le armi (della dialettica, s’intende), e arrendersi all'evidenza. Lo avevano già gridato a gran voce Matteo Righetto e Matteo Strukul, ideatori del movimento Sugar Pulp (http//www.sugarpulp.it), nato un anno fa intorno a un manifesto sottoscrivibile su facebook ed effettivamente sottoscritto, in tempi brevissimi, da diverse centinaia di fan; ora, a ribadire il concetto sono i Guano Padano (http://www.myspace.com/guanopadano), trio composto da Alessandro "Asso" Stefana (chitarra), Danilo Gallo (contrabbasso, vibrafono, piano, organo) e Zeno De Rossi (Batteria e percussioni). Sì, perché i tre sembrano avere in mente lo stesso tipo di sintesi o sovrapposizione: gli ampi spazi del nord est Italiano e quelli indimenticabili del grande western cinematografico; l'anima selvaggia, violenta, istintiva degli "uomini della pianura", al centro della composizione e dell'improvvisazione musicale, come in un romanzo d'erranza, pieno di variazioni, giri, "colpi di testa", impulsi randagi. E ad accompagnare Stefana, Gallo e De Rossi -recentemente sbarcati in tutti i negozi di dischi con il self-titled Guano Padano (album di produzione americana, targato "Important Records" e già osannato da Joey Burns dei Calexico)-, nelle loro scorribande, sono intervenuti numerosi musicisti di meritata fama, da Chris Speed, già clarinettista per Zorn, a Alessandro Alessandroni, “fischiatore” per quel Morricone la cui influenza si fa sentire in ogni singola traccia, determinando il gusto “cinematografico” dell’album, passando per il chitarrista Gary Lucas, ormai quasi un'icona dell'avanguardia newyorchese. Il tutto per tacere di Bobby Solo, che dà il meglio di se’ nella cover (in salsa latinoamericana) del classico di Hank Williams Ramblin’ Man. Il risultato? Un evocativo, riverberante, country-surf-jazz mutante (1) con contaminazioni latin e elettroniche, twangy, positivamente confuso; un riuscito pastiche che si tinge qua e là di free-jazz punk di zorniana memoria (à la Naked City, per capirci), mantenendo, per il resto, arrangiamenti magistrali a dispetto dell’ampiezza dei riferimenti intertestuali.
Da segnalare, oltre alla splendida Ramblin' Man, l'incredibile Danny Boy, quasi irriconoscibile in virtù di un mostruoso processo di decostruzione e ricostruzione, e le seducenti A country Concept e Bull Buster.



(1) "Programmaticamente mutante", si direbbe a giudicare dall'immagine di copertina che sembra raffigurare la poetica della band, evocando, nella sovrapposizione avvoltoio-scheletro la cannibalizzazione artistica (tendenza alla citazione), e l'ibridazione di generi apparentemente incompatibili (sembra di trovarsi di fronte a un inedito incrocio tra condor e bipede non meglio identificato).

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Thursday, December 17, 2009

James Lee Burke: La ballata di Jolie Blon


«Sono cresciuto negli anni Quaranta, a New Iberia, giù lungo la costa del Golfo, e non ho mai messo in dubbio il modo in cui funzionava il mondo. All’alba, le case coloniali della East Main emergevano dalla nebbia, i portici ornati da colonne e i vialetti dei giardini e le verande umide di rugiada, i camini e i tetti d’ardesia segnati dolcemente dai rami delle querce che come un arco coprivano tutta la strada. Le carcasse delle navi affondate della Marina americana giacevano sui fianchi a Pearl Harbor e le stelle di servizio erano appese alle finestre di tutta New Iberia. Ma sulla East Main, nel chiarore illusorio dell’alba, l’aria era carica del profumo dei fiori notturni e dei licheni che crescevano sulla pietra umida, e dell’odore fecondo del bayou Teche, e anche se una stella di servizio d’oro era stata appesa alla finestra di una grande casa a indicare la morte di un membro della famiglia nell’esercito, l’anno avrebbe potuto benissimo essere il 1861 invece del 1942.» (1)

Comincia così La ballata di Jolie Blon, opera tra le più riuscite di James Lee Burke: con l’evocazione di un passato che sembra da tempo dimenticato. Ma la descrizione della Lousiana degli anni ’40, apparentemente paragonabile- avvolta com’è dal comprensibile alone mitico di ogni luogo della memoria- alla terra verde e rigogliosa del 1860, abitata da “bravi cristiani”, patrioti e gentiluomini del sud, non dura molto: concluso un antefatto che poi si rivela tale solo da un punto di vista temporale, perché è quasi scollegato dal seguito, l’autore passa alla “nuova” New Iberia, dipinta in tutta la sua miseria attraverso l’evocazione di un paio di omicidi, quello di una sedicenne di buona famiglia, legata sotto un albero, violentata e uccisa a colpi di fucile, e quello di una prostituta tossicodipendente. La falsa opposizione tra paradisiaco passato e decaduto presente, creata dai capitoli iniziali, ha vita breve: per risolvere il caso, Robicheaux dovrà distogliere lo sguardo dal giovane, dolente bluesman Tee Bobby Hulin, presunto assassino delle due donne, per guardare indietro; e, nel farlo, non solo rivaluterà (svaluterà?) il passato, sistemando vecchi ricordi irrisolti e afferrando meccanismi vigenti (ma per lui incomprensibili) all’epoca della sua infanzia, ma si troverà ad affrontare un temibile superstite: il vecchio schiavista Legion(2) Guidry, emanazione prima del "male assoluto".
E mentre lo scontro si fa duro, e gli assalti del diabolico Guidry diventano diretti e violenti, Robicheaux deve tentare di mantenere sotto controllo una banda di mafiosi italiani imparentati con la prostituta uccisa, accorsi in città per indagare “in proprio”...

Il romanzo procede inesorabile, incidente dopo incidente, verso un “biblico” finale, e, intanto, quello che balza fuori dalle pagine, nel confronto serrato tra ferite passate e cicatrici presenti, tra antiche brutture e moderne crudeltà, è una profonda verità morale, un discorso sul male(3), sulla sua esistenza e immutabilità; una riflessione che Burke affronta con grande serietà, senza concedere al suo personaggio nessun tipo di scorciatoia(4): così, grazie a una prospettiva fideistica popolar-hollywoodiana, à l'Américaine (è solo per merito del “soprannaturale” aiuto di un angelo straccione, che la vicenda si risolve positivamente)(5), l'autore può permettersi di chiudere senza introdurre un facile lieto fine e senza contrapporre una "violenza giusta" a quella, insopportabile del vecchio Legion(6).

Il romanzo La ballata di Jolie Blon di James Lee Burke, edito da Meridiano Zero, è stato recentemente riproposto ai lettori italiani in edizione rivista e aggiornata, nell’ottima traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini.



(1) James Lee Burke, La ballata di Jolie Blon, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 5.
(2) Il nome del personaggio contiene un chiaro riferimento al Vangelo di Marco che, nel corso della narrazione, si fa sempre più esplicito. Recita Marco: “Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: "Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!". Gli diceva infatti: "Esci, spirito immondo, da quest'uomo!". E gli domandò: "Come ti chiami?". "Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti". E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi". Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare”. (Marco, 5:1 – 5:12).
(3)Il discorso non manca di qualche riflessione politica volutamente ingenua: sembra, a tratti, che i "ricchi" siano necessariamente "cattivi", e di converso (e in maniera altrettanto falsa) che tutti i "poveri" siano "buoni". I brani che danno questa impressione, che paiono semplificare una situazione difficilissima, nella quale le tracce di problemi sociali (si pensi alla questione razziale) vecchi o contemporanei si fondono alle colpe personali (antiche e presenti) in maniera inesplicabile, testimoniano in realtà perfettamente i travagli di Robicheaux, personaggio sempre in bilico, al confine tra granitico moralismo cristiano-americano "di destra" e attenzione alle vittime, tra senso del dovere da sbirro "duro" e cristiana (stavolta in senso positivo) comprensione e attenzione per gli "ultimi".
(4) In effetti, le ultime pagine lasciano intendere un possibile ricorso di Robicheaux alle maniere forti (cfr. p. 348), ma il provvidenziale intervento di Sal permette al protagonista di arrivare “immacolato” alla fine del romanzo. Lo stratagemma, lontano dai normali modi del romanzo nero, non stona con il finale “soprannaturale”; d’altra parte, il riferimento biblico, raro nella letteratura poliziesca, è un elemento centrale della grande letteratura degli stati del sud, da Flannery O’Connor a Faulkner, da Caldwell a Carson McCullers, e così via fino a McCarthy (tutti autori che Burke dimostra di aver letto e amato, e che si affacciano con prepotenza da alcune sue pagine)…
(5) Ed è quasi sorprendente che la figura stracciata e dolente del folle angelo-reduce non tolga nulla alla vicenda, ma contribuisca alla sua perfezione...
(6)Ben altra era la conclusione del più recente e meno riuscito L'urlo del vento...

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Sunday, December 13, 2009

Premio Scerbanenco: "I cinquanta nomi del bianco", di Franco Limardi

Recensione di Seia Montanelli


Di modi per cominciare una storia noir, non è che ce ne siano poi molti. Si può aprire le scene con l'apprendistato criminale di un personaggio, o mostrando gente che prepara un colpo; si può raccontare la storia di un fuggiasco, o inscenare un atto di ingiustizia che esigerà una terribile vendetta. Oppure, si può far sparire qualcuno, come nel romanzo "Quo vadis, baby?" di Grazia Verasani, o nel film "Angel Heart" di Alan Parker.

"I cinquanta nomi del bianco" di Franco Limardi è un noir che ha avuto buoni riscontri di pubblico e critica - dopo essere stato in concorso al premio Scerbanenco, è in corso di traduzione in Germania - e comincia, appunto, con una scomparsa (anche se noi sappiamo, per dirla con Marlowe, che "la ragazza è morta"). Un sottogenere del noir che inevitabilmente punta la lente d'ingrandimento della narrazione su coloro che si muovono sulle tracce di chi è sparito (in questo caso, una ragazza di nome Grazia); la tradizione esige che il segugio, o i segugi se ve n'è più d'uno, scoprano poco per volta scampoli di informazioni sulla persona che stanno cercando, e svelando i retroscena della sua vita apprendano dettagli che li spingano a confrontarsi con i luoghi bui della loro stessa anima. Questo tipo di narrazioni ci dà occasione di riflettere su quanta parte della nostra storia affondi le sue radici in un comune destino umano, al punto che nel romanzo "La passione del suo tempo" di John Le Carré il protagonista viene ammonito in merito al fatto che egli non sta cercando il suo amico scomparso per ritrovarne le tracce ma per diventarlo.

"I cinquanta nomi del bianco" rispetta in pieno, si può dire, questa tradizione. Anzitutto nei toni del racconto, che divide i suoi personaggi tra due categorie di soggetti: l'umanità degradata e quella dolente. Da una parte abbiamo individui sofferenti, soli, feriti dalla vita; dall'altra abbiamo antagonisti privi di scrupoli, sovente volgari anche nell'eloquio. Ciò che riscatta gli individui, sembra dirci con ciò Limardi, è anzitutto il sentire di avere un'anima ferita; tale consapevolezza può darci strumenti di riscatto, anche nella sconfitta.

Sulle tracce di Grazia si muovono in quattro: un ex detenuto improvvisatosi investigatore, un commissario in fine di carriera (e questi possiamo metterli tra i dolenti); mentre sul fronte opposto, quello dei degradati, ci sono un killer appartenente a una cosca di camorristi e un direttore di banca legato alla malavita organizzata. I quattro agiscono in una città resa spettrale dalla neve che cala su di essa, ove l'alleato può farsi nemico in un istante e, per contro, in altre circostanze può essere proprio l'avversario a offrire una insperata occasione. Climi alla Olivier Marchal, personaggi che vagano per la trama con movenze lente e nichiliste, e comprimari che inevitabilmente parlano la lingua dei mediocri o dei perdenti. Il nome del cineasta francese non è fatto a caso: Limardi usa una gestione cinematografica degli schemi narrativi (la vicenda è raccontata seguendo di volta in volta ciascuno dei quattro impegnati nell'indagine) e soprattutto dei tempi, con alcuni bruschi passaggi dal presente al passato che sarebbero perfetti in un film, ma che in un libro possono causare qualche momento di confusione al lettore.

Sul piano stilistico, risulta aspra il giusto la lingua usata dai personaggi nei dialoghi, costruita su un registro affine a quello del parlato con ampi prestiti dialettali; anche se a volte essa stride con i momenti di intenso lirismo prodotti dall'autore in talune descrizioni. C'è quella che sembra essere una volontà esplicita, da parte di Limardi, nel mescolare forme stilistiche diverse, dal botta-e-risposta serrato a un incedere descrittivo che generalmente non ci si aspetta in un romanzo noir. Questa scelta ha indubbiamente una sua forza (più volte il lettore si trova ad essere spiazzato da un repentino cambio di stile) ma forse qualche colpo di lima qua e là avrebbe giovato sul piano della scorrevolezza.

Menzione d'onore per la resa dei conti finale, dove realisticamente hanno la meglio i più forti e meglio organizzati (che non racconto chi sono, per non rovinarvi il gusto) anche se il libro si chiude su una sequenza che la dice lunga su come nessuno, tantomeno i vincitori, possa avere la meglio sul destino, né sapere dove questo andrà a parare.


Il romanzo I cinquanta nomi del biano, di Franco Limardi, semifinalista al premio Scerbanenco, è edito da Marsilio.

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Friday, December 11, 2009

Premio Scerbanenco: "Il posto di ognuno, L’estate del commissario Ricciardi", di Maurizio de Giovanni

Recensione di Luigi Romolo Carrino


Il corpo della duchessa Adriana Musso di Camparino, bella quanto infedele, giace privo di vita sul divano dell’anticamera situata alla fine della grande scala che porta al primo piano, nel palazzo di famiglia. Nell’angolo opposto rispetto al divano, perfettamente visibile agli occhi della sua mente, il commissario Ricciardi ascolta le parole che, ossessivamente, l’anima della duchessa ripete: L’anello l’anello, hai tolto l’anello, l’anello mi manca. È questo il potere del commissario, il “Fatto”, così lo definisce, ossia la capacità di vedere, dopo una morte violenta, la vittima che pronuncia a voce alta il suo ultimo pensiero.

Un dono maledetto. Glielo aveva predetto anche sua madre quando, con orrore, aveva intuito le sue facoltà. Sei maledetto, povero piccolo mio. Maledetto. Perché questo dono gli impedisce di amare qualcuno, o anche solo di farlo partecipe della sua vita legata, in qualche modo, al regno dei morti. Probabilmente è questa la ragione della sua natura schiva, riservata, della sua solitudine.

La terza stagione del barone Luigi Alfredo Ricciardi, commissario operativo della Regia Questura, accade nella calura estiva, a tratti torrida, di una Napoli del 1931. Il sole era alto e non faceva prigionieri.

Origini non proprio nobili; sposata in seconde nozze al quasi defunto Matteo Musso duca di Camparino, dopo essere stata l’infermiera della sua prima moglie; una relazione extraconiugale, molto tormentata, con il caporedattore del ‘Roma’ Mario Capece; un figliastro difficile da gestire; una serie di frequentazioni ambigue, due anelli perduti, un foro in mezzo alla fronte: chi era davvero Adriana Musso di Camparino? I capricci di una donna bellissima e instabile, insicura e fatua.

Comincia in una domenica afosa, insieme al fido brigadiere Raffaele Maione (alle prese con una dieta forzata) e al simpatico dottor Modo, medico legale, l’indagine del commissario Ricciardi volta a stabilire le cause e i responsabili dell’assassinio di uno dei personaggi più in vista della città. Chi ha ucciso la bella duchessa? Sebbene morta, a vederla stesa sul divano pare conservi ancora intatto il suo fascino. Eppure a Ricciardi, e a lui solo, è dato modo di constatare quanto la morte abbia oltraggiato la sua bellezza. La morte disordina.

L’indagine porta Ricciardi e Maione a conoscere una variegata teoria di personaggi, parte integrante del tessuto di quella società e che scandisce il ritmo vitale della Napoli nei primi anni del Novecento. Uno fra tutti il colorito travestito Bambinella, delicato e rispettoso omaggio al personaggio celeberrimo di Viviani, che tra gli inciuci di quartiere e il mestiere antico del femminiello, dà una mano al brigadiere Maione a raccogliere informazioni. La vita continua uguale a prima, ognuno al suo posto.

Dentro al commissario Ricciardi, esattamente al suo posto, c’è anche l’uomo Luigi Alfredo. Parallelamente alla storia dell’omicidio vengono disvelati i turbamenti, le ombre dell’animo umano, la sofferenza per il ‘Fatto’ sedata, nei momenti di luce, dall’impegno per la sua attività. Ma nella cupa solitudine del suo spazio notturno, Luigi Alfredo deve controllare i tumulti del cuore, costretto a barcamenarsi tra il desiderio della sua tata Rosa di vederlo finalmente sistemato e le fitte di gelosia che prova per Enrica, donna che vive di fronte casa sua e alla quale rivolge, da un anno, solo un breve cenno di saluto, tutte le sere, dalla finestra (la scena dell’incontro al Gambrinus, in una danza a quattro fatta di seduzione, ammiccamenti, aspettative, complotti sentimentali, è degna dell’ossessione e della precisione di Flaubert per i dettagli). Le cicatrici nascoste sono così. Ognuno ha le sue.

Orchestrata in terza ma con stranianti, talvolta commoventi, assoli in prima, la scrittura di Maurizio de Giovanni si muove, suona attraverso le strade della Napoli che fu. Dopo appena poche pagine frusciano le vesti tra le stanze di palazzo Musso, il rumore delle carrozze sui basoli dissestati entra dalla finestra aperta, nobili risate arrivano dalla platea del San Carlo, mentre il mare della città, con tutta la sua tranquillità trasparente e compatta, rincorre l’afa della notte per portarle un po’ d’acqua fresca. Ed è proprio così, la scrittura di de Giovanni rinfresca, rinfresca come solo l’acqua sa fare, e disseta l’arsura di letteratura (e non solo di scrittura) che – mai come in questi anni, in Italia – è emergenza di qualità. Una qualità che, a mio umile avviso, sta arrivando sempre più spesso dal parco autorale della generosa campania.

Dotata di una fluidità garbata ed elegante, questa scrittura restituisce da sola, e con stupore cristallino – ovvero, anche senza i vari elementi oggettivi distribuiti sapientemente e collocabili nel contesto storico narrato –, tutta l’atmosfera degli anni in cui la storia si svolge. E di stupore in stupore, con una precisione chirurgica all’improvviso, nel caldo della notte e nella musica che veniva da lontano, Ricciardi capì chi aveva ucciso Adriana Musso di Camparino. E perché lo aveva fatto.


Il romanzo Il posto di ognuno, di Maurizio de Giovanni, finalista al premio Scerbanenco 2009, è edito da Fandango.



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Thursday, December 10, 2009

Assegnato a "Morte a Firenze" di Marco Vichi il Premio Scerbanenco 2009

È stato reso noto ieri sera a Courmayeur: è Marco Vichi, autore del romanzo Morte a Firenze, il vincitore dell'edizione 2009 del Premio Scerbanenco.
Nonostante l'ovvio ritardo, continueremo, qui, quell'analisi dei romanzi arrivati in semifinale che ci ha portato, per ora, alla pubblicazione delle recensioni di Un bell'avvenire di Marco Videtta, Verde Napoletano di Letizia Triches e Un nuovo inizio di Vincenzo Maimone.
A questo punto, però, mi pare d'obbligo violare l'ordine di pubblicazione dei pezzi, inserendo la recensione del romanzo vincitore.

Recensione di Carlo Frilli per Genova Nera

Se volete leggere un libro che superi il puro e semplice divertissement l'ultimo di Marco Vichi Morte a Firenze è quello che fa al caso vostro. Il suo Commissario Bordelli con la sua malinconica solitudine che cerca di farsi compagnia con l'inseparabile sigaretta, indaga su uno dei più atroci delitti. Il corpo nudo di un bimbo appena tredicenne viene ritrovato privo di vita nel bosco, prima di venire ucciso il piccolo è stato violentato e seviziato. La pioggia è l'elemento di disturbo alle indagini di Bordelli, sembra quasi che ogni traccia sia stata portata via dall'incessante acqua che cade su Firenze in quei lunghi giorni dell'ottobre del 1966. L'atmosfera e l'umore cupo del commissario danno vita a un'indagine lenta e stanca a cui si aggiungono i ricordi ossessionanti di guerra, una guerra che ha lasciato il segno su Bordelli. Ma Vichi è in questo uno dei più bravi narratori del panorama nazionale, riesce infatti a far scorrere il suo romanzo come l'Arno di quei giorni, un fiume in piena che porta il lettore a consumare le pagine una dietro l'altra con l'ansia crescente di dover e voler insieme terminare il libro rimandandoci al già atteso prossimo.
Che sia Firenze, Milano, Genova o Licata il luogo d'ambientazione se un romanzo è bello poco dovrebbe interessare al lettore, la città fiorentina di quei giorni prende vita nelle pagine scritte da Vichi, ci sembra di percepire lo stato d'animo degli abitanti, la sensazione di impotenza di fronte ad una catastrofe naturale come un'alluvione è del tutto simile allo stato d'animo di Bordelli d'innanzi all'efferato caso di omicidio a cui indaga. Il suo disagio e malessere nel ritrovamento del bambino morto riportano Franco Bordelli ai morti della guerra, nei suoi occhi è come se potessimo vedere l'orrore provato da un soldato nell'uccidere suoi simili e nel vedere i loro corpi abbandonati nella terra come quello del piccolo Giacomino. Il suo carattere deciso e la sua onesta ostinazione lo porteranno a cercare il colpevole per le giuste vie, a percorrere quei viali delle Cascine e a risolvere infine il caso. Amaro, doloroso, coinvolgente ed intenso è un romanzo da consigliare a tutti coloro che amano leggere.

Vincitore del premio Scerbanenco 2009, il romanzo Morte a Firenze, di Marco Vichi, è edito da Guanda.

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Premio Scerbanenco: "Un nuovo Inizio", di Vincenzo Maimone



Recensione di Biagio Spoto

Il libro di Vincenzo Maimone rispetta apparentemente gli ingredienti classici del giallo: il ritrovamento di un cadavere, l’assenza di motivazioni manifeste che possano spiegare la morte del tranquillo professor Vittorio Sapienza, pochissimi indizi a disposizione degli inquirenti. Dico solo apparentemente, perché nel corso della lettura, Un nuovo inizio, romanzo d’esordio dell’autore, offre ai lettori diverse occasioni di riflessione sulla natura umana e sui suoi lati oscuri. Come dirà il commissario Costante, uno dei protagonisti di questa storia, l’inchiesta iniziata a seguito dell’omicidio del prof. Sapienza cessa di essere una prassi di routine per divenire “un’indagine sulla solitudine”. La ricerca della verità sulla solitudine del prof. Sapienza è il filo che fa intrecciare le vicende riguardanti la sua morte con le storie personali dei due protagonisti del romanzo, il commissario Costante e il professore di filosofia Tancredi Serravalle, che in una strana ma proficua alleanza indagheranno sul caso. L’inedita coppia di inquirenti è formata da due personalità profondamente diverse ma forse per questo complementari. Tanto metodico e calmo il commissario Costante, quanto intuitivo e inquieto il prof. Serravalle. I due condividono una stessa preoccupazione che è la molla che li spinge ad appassionarsi così intensamente al caso, quella di rimanere imprigionati nei traumi del loro passato e nella solitudine che ne scaturisce, così come era capitato al professor Sapienza. Il tema dell’elaborazione della memoria e delle conseguenze che le nostre storie personali possono avere sulle nostre vite future, è dunque un altro degli argomenti principali di questo libro.

I due protagonisti cercando di ricostruire la vita della vittima, le sue solitudini, le sue disavventure, cercano di capire qual è stato il punto di rottura che ha portato l’esistenza serena del professore a divenire un appuntamento inevitabile con la morte. Indagando sulla storia personale di Sapienza, Costante e Serravalle in realtà non fanno altro che guardare alla propria vita, in una sorta di meccanismo alla sliding doors. Cosa sarebbe successo alle loro vite, se non avessero trovato la forza per reagire alle avversità? Cosa li differenzia in realtà dal povero Sapienza? La riflessione a cui l’autore del romanzo ci accompagna è che cominciare qualcosa di inedito, una nuova vita, un nuovo progetto, un nuovo inizio, è possibile soltanto se si riesce a fare i conti col proprio passato e se si perdonano gli errori commessi da noi stessi e dagli altri. Anche se l’autore, filosofo di professione, nel suo libro impiega volutamente con parsimonia gli strumenti del suo mestiere, quello che differenzia Costante e Serravalle dal prof. Sapienza è che i primi per citare Hannah Arendt sono capaci di «agire, […] prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa»(Arendt, vita activa, p. 128), e dunque in grado di cambiare il senso della loro vita: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» (Arendt, vita activa, p. 129).

Sapienza, invece, non è stato capace di iniziare nulla di nuovo e di reagire di fronte ad alcuni fatti drammatici che hanno scosso la sua vita. Egli, dunque, è rimasto prigioniero di “un pensiero fisso” che lo ha condotto sino alla morte.

Nonostante lo spessore dei temi trattati, il romanzo di Maimone è di piacevole lettura. Soprattutto grazie alle dosi massicce di ironia e di humour che l’autore dispensa in diverse parti del racconto. Bersaglio principale sono i pregiudizi e i luoghi comuni di cui è intrisa la realtà del quotidiano, specialmente all’interno delle piccole comunità in cui ciascuno di noi passa gran parte del proprio tempo. Assolutamente divertenti sono i ritratti di alcune figure caratteristiche del “microcosmo” scuola in cui si sviluppa parte del romanzo: il vecchio professore logorroico, la professoressa “lecchina”, l’applicato di segreteria con le sue manie da perfetto burocrate. Tipi umani applicabili ad ogni contesto lavorativo.

Un’altra bella trovata dell’autore è far dialogare il protagonista principale Tancredi Serravalle, col proprio demone socratico. Ne vengono fuori scambi di battute divertenti e vivaci nelle quali Tancredi e il suo demone si mandano spesso e ripetutamente a quel paese, quasi fossero una vecchia coppia di amanti litigiosi e brontoloni.

La capacità di miscelare fasi comiche ad altre di riflessione più seria, è il pregio migliore di un romanzo divertente e mai banale. Un unico appunto da muovere è sulle potenzialità espressive dei personaggi di questa storia, a mio parere solo parzialmente manifestate in questo romanzo. Forse un limite, ma sicuramente un buon risultato per l’autore, se deciderà di dar seguito alle loro storie.

Il romanzo Un nuovo Inizio, di Vincenzo Maimone, semifinalista al Premio Scerbanenco, è edito da Sampognaro & Pupi.

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Wednesday, December 09, 2009

Premio Scerbanenco: "Verde Napoletano", di Letizia Triches

Recensione di Michele Fiano


Napoli, primi anni Ottanta, coloratissima città e altrettanto variopinto periodo; ma è con due funerali che inizia questa storia, quelli di due artisti figurativi locali. Ad assistervi, un'anima vagante, il famoso "47- morto che parla" (nella smorfia napoletana in realtà è indicato col numero 48; l'equivoca attribuzione è dovuta perlopiù al titolo di un film di Totò del 1950: "47 Morto che parla", appunto). Il fantasma non ricorda nulla del corpo appartenutogli in vita e la sensazione di avere una particolare predilezione per i colori lo spinge a pensare che una delle salme degli artisti sia la sua. Indagherà in questa direzione, seguendo però solo a latere le vicende delle due vedove, vere protagoniste del romanzo. La sua voce narrante lascia infatti la scena a quelle delle due donne, che si alternano nei capitoli successivi, raccontando l'esperienza di vita al fianco dei due artisti.
Chantal Chiusano, la prima delle due, è una pacata ma abilissima "commissaria" e vive una perfetta storia d'amore col giovanissimo marito Giovanni Aiello, bravo paesaggista, dotato di grande tecnica, specializzato in ritratti sacri, aderente appieno alla scuola napoletana classica, poco famoso ma molto stimato nell'ambiente. Sara Steno, l'altra vedova, è una psicologa romana che vive la relazione coniugale in modo molto più complicato, vede suo marito, Michele Mosti, solo nei fine settimana. Infatti, pur di conservare un po' d'indipendenza, continua a vivere a Roma e a svolgervi la professione. Mosti, a differenza del tradizionalista Aiello, ha un discreto successo, dovuto alla protezione e alla frequentazione di galleristi e critici locali; il suo lavoro è molto più sperimentale ma i suoi quadri imitano con scarsi risultati i capolavori di Burri e Fontana, insomma risulta essere decisamente sopravvalutato e ne è tristemente consapevole. Mosti è alla ricerca costante di una novità e di un'originalità che è negata all'altro.
Questi sono gli attori principali di questo giallo molto classico, ottimamente strutturato, che ha come sfondo non solo i quartieri malfamati della Sanità o quelli rinomati di Posillipo, ma anche tutto il mondo accademico, di cui la Triches dimostra di essere attenta conoscitrice (è docente di Storia dell'arte). Ma spiccano anche altri comprimari altrettanto peculiari, tra gli altri il critico Ascanio Baldi Oppi (le iniziali vi dicono niente?), figura malata di protagonismo che fa il bello e cattivo tempo della scena artistica partenopea e non solo.
Nel caos di Napoli emergono singoli eventi che hanno una precisa ragione d'essere: si alternano passioni violente a normalissimi quadretti familiari, si dà risalto all'attaccamento di quelli che sono i trucchi del mestiere e la ritrosia a rivelarli. Ma quella che erompe con maggior forza è l'ambizione artistica che governa l'ambiente accademico, la fame di successo che spinge anche ad uccidere. L'omicidio di Mosti, su cui indaga la Chiusano, è commesso in modo artistico e raccapricciante: la sua morte evoca una delle famose combustioni su tela di Alberto Burri.
Ma di omicidi ce ne saranno altri, la "commissaria" giungerà ad affrettate conclusioni ma non demorderà nella ricerca della verità; i colpi di scena nel lungo finale abbonderanno.
Questo della Triches è un esordio la cui forza sta principalmente nella struttura della trama e nelle caratterizzazioni dei personaggi, soprattutto quelli femminili. Da apprezzare anche la scrittura non pretenziosa, il non cercare paroloni o termini ad effetto per descrivere un ambiente così caratteristico qual è quello artistico, insomma una lettura che intrattiene piacevolmente ma non se si cercano chiavi di lettura alte o altre. Un ultimo appunto ai tipi della rispettabilissima Pendragon: ma per un libro che così chirurgicamente descrive le differenze tra arte iconica classica e astratta, non si poteva prestare più attenzione alla veste grafica che decisamente dissuade dall'acquisto?


Il romanzo Verde Napoletano, di Letizia Triches, semifinalista al premio Scerbanenco, è edito da Pendragon.

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Tuesday, December 08, 2009

Premio Scerbanenco: "Un bell'avvenire", di Marco Videtta

Recensione di Matteo Di Giulio

Per Marco Videtta non si tratta di vero e proprio esordio, visto che scrisse a quattro mani NordEst, bestseller d'inchiesta firmato con Massimo Carlotto. Eppure, sotto tanti punti di vista, Un bell'avvenire segna un secondo inizio. È una storia di finzione, è una storia scritta in prima persona, è una storia ambientata in un'altra epoca, il fascismo, è una storia che vede lo scrittore impegnato da solo contro gli incubi di un'altra generazione. È un libro post. Post genere, postmoderno, più che post noir, di cui tanto si parla in rete. Un romanzo storico che nonostante la forma piuttosto breve ha il grande respiro delle opere che attraversano la storia, quella vera, come schegge nel tempo.

Due fratelli, un ideale. Nero. Post nero anche in questo senso, perché il romanzo di Videtta si lega alle regole del genere e ne distorce le prospettive. New Italian Epic, volendo. E anche romanzo di formazione. Mai come in questo caso le etichette rendono difficoltoso - o agevole, a seconda dei punti di vista - il lavoro della critica. L'affresco che deriva dalla prosa asciutta e da un solido lavoro di ricerca parlano chiaro. L'interesse è per i personaggi e per i loro demoni, piuttosto che per i meccanismi narrativi, a loro modo secondari. Un bell'avvenire è un giallo, un giallo politico, o di inchiesta, come si diceva un tempo: una parentesi aperta nel passato, delineata lungo il filo della ricerca. L'Amitrano minore, devoto al fratello, invasato da Mussolini, vuole ricostruirne il periodo prima della morte, nonché il nome e il volto dell'assassino.

Il maggior merito di Videtta è di credere alla verosimiglianza di quanto racconta. Ma, per farlo, ricorre alla patina di eroismo di cui riveste i suoi personaggi. Combattono per idee. Un ossimoro contro l'oggi, svuotato di ogni possibile ideologia? Ipotesi a parte, è una storia che andava raccontata. Ricorda il cuore oscuro dell'Italietta di oltre sessant'anni fa, ne riporta su carta pulsioni, umori, sensazioni, e se pure lo sguardo è parziale, il suo farsi obliquo è un omaggio all'avventura, non al pericolo fine a se stesso dell'inquadramento sociale. Un bell'avvenire, finalista al premio Azzeccagarbugli e semifinalista allo Scerbanenco, parla con il cuore in mano, con quella schiettezza tipica dei popolani guidati dalla semplicità, quando semplice significava verace, e non era visto con accezione negativa.

Dietro il fossato dei generi, del pathos, del mistero, c'è ancora altro. C'è un libro di storia che riflette, per traslazione, su cosa siamo, da dove veniamo e - forse - dove stia andando una società che dei valori, con la V maiuscola, ha mantenuto solo la facciata. Perché i giovani di bell'avvenire, oggi, non sono più quelli di una volta. È solo quando si capisce che il discorso da vecchio trombone nasconde l'epica dei guerrieri che ci si lascia andare a scoprire l'ultimo, classico strato su cui si fonda il romanzo di Videtta. Un bell'avvenire intrattiene, commuove, distrae, fa riflettere. Il suo spirito non può non essere ambivalente, complementare come i due protagonisti in gioco: al tempo stesso noir e metaletterario, autoriale e artigianale, sacro e profano. Un post esordio da incorniciare.

Il romanzo Un bell'avvenire, di Marco Videtta, è edito da E/o.

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Sunday, December 06, 2009

"Premio Scerbanenco", note da uno speciale in divenire



Comincia oggi, con la pubblicazione della recensione del romanzo Un bell'avvenire di Marco Videtta, lo speciale sul Premio Scerbanenco ideato poche settimane fa in polemica con i dibattiti teorici che hanno visto spaccarsi in due opposte fazioni (pronte a fronteggiarsi con toni anche violenti) il mondo tradizionalmente "pacifico" di autori e appassionati di noir, poliziesco e giallo.
Le 18 recensioni che appariranno nei prossimi giorni, frutto del lavoro di una serie di amici, appassionati lettori e attenti recensori, si uniranno alle tre già pubblicate, formando uno "speciale" collettivo sui 21 semifinalisti del premio Scerbanenco.


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Tuesday, December 01, 2009

Niccolò Ammaniti: Che la festa cominci



Una mia recensione del romanzo Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti è appena stata pubblicata sul portale Sugarpulp.
(http://www.sugarpulp.it/critica/che-la-festa-cominci-di-niccolo-ammaniti)

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