Friday, January 29, 2010

NonSoloNoir saluta J.D. Salinger

(J.D. Salinger da una copertina del New York Times, 15 Settembre 1961)


Si è spento nella giornata di ieri, 28 gennaio, a Cornish, New Hampshire, cittadina nella quale si era rifugiato, nel 1953, per sfuggire al successo ottenuto con la pubblicazione di Il giovane Holden, il novantunenne scrittore americano J.D. Salinger. Stando alle dichiarazioni del figlio, la morte sarebbe dovuta a cause naturali.
Indiscusso innovatore del romanzo di formazione, con l’indimenticato (e, ahimè, troppo spesso imitato) Giovane Holden, ma anche autore di nove, meravigliosi, racconti, e di una coppia di discreti romanzi brevi, Salinger conduceva da anni una vita ritirata: la sua ultima apparizione pubblica risaliva agli anni ’80, quando, indispettito dal tentativo di pubblicazione della sua biografia non autorizzata In Search of J.D. Salinger, aveva improntato una causa contro l'autore Ian Hamilton (1). L’ultima intervista era invece datata 1974, anno in cui l’autore di Il giovane Holden aveva inaspettatamente accettato di rispondere alle domande di un giornalista del "New York Times".

Salinger lascia i tre romanzi Il giovane Holden (1951), Franny e Zooey (1961) e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione (1963), l'antologia Nove racconti (1953)(2), e, forse, una serie di opere mai pubblicate; in mancanza di dati certi, e rifiutandoci di insinuare -come molti hanno già fatto e stanno facendo- un nesso tra la sua "invisibilità" e il suo successo duraturo, non ci resta che ricordarlo per questo.

(1) La biografia è infine stata pubblicata in edizione rivista, priva delle parti che in origine facevano riferimento a corrispondenza e documenti privati di Salinger. (ed It: Ian Hamilton, In cerca di Salinger, Minimum Fax, Roma 2001).
(2)Tutte le opere di J.D. Salinger sono edite in Italia da Einaudi.

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Monday, January 25, 2010

Vilmos Kondor: Budapest Noir


“Come giornalista di cronaca nera di Az Est, conosceva i mille modi in cui la morte si manifesta molto meglio di quanto avrebbe voluto. Domestiche che si avvelenano con i fiammiferi, che si buttano sotto un tram, barbieri che fanno a pezzi le loro amanti, donne divorziate che si tagliano le vene con un rasoio, garzoni di bottega che si gettano dal ponte Francesco Giuseppe, impiegati gelosi che trafiggono le loro mogli con un coltello da macellaio, uomini d’affari che sparano ai loro concorrenti con un revolver – le possibilità sono infinite, e allo stesso tempo di una deprimente uniformità, poiché la fine è sempre la stessa.” (1)


Budapest, ottobre 1936. Il conservatore Gyula Gömbös è morto, e forse l’Ungheria dovrà rinunciare al sogno di affiancare Germania e Italia nel nascente asse Roma-Berlino. Intanto, mentre l’intera città si perde nei preparativi dei funerali di stato, e le spoglie del defunto primo ministro sono in arrivo da Monaco, Zsigmond Gordon, cronista di nera per il quotidiano “Az Est”, indaga sull’omicidio di una giovane sconosciuta trovata morta, priva di documenti ed effetti personali se non per un “mirjiam”, un piccolo libro di preghiere ebraiche femminili, nella zona malfamata posta all’incrocio tra via Nagydiófa e corso Rákóczi. Per gli uomini della polizia si tratta del semplice omicidio di una prostituta, ma Gordon vuole vederci chiaro: come e perché una giovane ebrea di buona famiglia si ritrova costretta a prostituirsi in una delle zone più squallide della città? Perché l’ispettore capo Vladimir Gellért, che pure nega di essere in possesso di informazioni sul caso, conservava, già prima che il cadavere venisse ritrovato, una foto della giovane vittima?
Aiutato dal nonno medico in pensione e ormai “inventore” di conserve e marmellate a tempo pieno, dall’innamoratissima, valente, illustratrice Krisztina, e dallo spericolato tassista Czöveck, Gordon si muove tra incontri di boxe illegali e quartieri malfamati, riunioni politiche clandestine, squallidi studi fotografici e bordelli di lusso, tra ambiente politico e “alta finanza”, nel tentativo di dipanare l’intricata matassa. Nel farlo, scoprirà che la Budapest di fine anni ’30, oscurata dall’ombra del nazismo, può essere ancora più pericolosa di quanto non lo fosse la natia America nell'era del proibizionismo…

Salutato dai critici come “il primo noir in lingua ungherese”, Budapest Noir, di Vilmos Kondor, è sicuramente il primo noir ungherese tradotto in italiano; la scelta (azzeccatissima) è dovuta alla romana E/o, da sempre in prima linea nella selezione e edizione di testi chiave delle letterature cosiddette “minori” o nascenti, e già responsabile della diffusione, in Italia, del concetto di “noir mediterraneo”.
Giustamente paragonato ai romanzi dell’hard boiled americano, il romanzo di Kondor –primo capitolo di una serie avente per protagonista Gömbös- richiama alla mente, per meccanica e ambientazioni, l’Hammett degli esordi (sarà forse per le pur brevi parentesi pugilistiche, che evocano il classico Piombo e sangue), stemperato con simpatici battibecchi, scene di coppia e interni da sophisticated comedy sullo stile di The thin man nella versione portata sugli schermi da W.S. Van Dyke (L’uomo ombra, 1934, con William Powell e Myrna Loy).
Anche la scelta dei personaggi, dal cronista di nera alla giovane di buona famiglia, dal poliziotto incorruttibile (e forse corrotto…) al titolare di un impero commerciale, è piacevolmente classica, ma i canoni del genere sono rinnovati con tutta la libertà del citazionismo contemporaneo.
Per quanto riguarda l’assunto di base, invece, Budapest Noir è più realista del re, e più hard boiled dell’hard boiled: non solo l’unico, indiscusso, “oggetto di valore” (in senso greimasiano, s’intende), è la verità, e dunque il compito del detective è “morale” (e non “punitivo” o giustizialista), ma la ricerca della “verità” si rivela inutile(2), impedendo al protagonista ogni riappacificazione (3).
Anche da un punto di vista sociale, il romanzo riprende la lezione dell’hard boiled, mettendo in scena un universo globalmente corrotto nel quale le fasce più elevate della popolazione, dal mondo della politica a quello della finanza, risultano brutali, immorali, disoneste, disumane come (o più) delle classi meno abbienti, e il riconoscimento dei punti di contatto tra malavita e alta società è essenziale per la soluzione del caso(4).
La ricostruzione storica, che non si ferma all’evocazione del momento politico molto particolare, ma pervade le descrizioni ambientali, ricche di particolari d’epoca, è fortemente realistica(5) e rafforza un’atmosfera già ben costruita.
La narrazione in terza persona con focalizzazione fissa e stile scarno, veloce, fortemente dialogico, confermano il gusto “classico” di un romanzo solido e retrò, scritto con la libertà e la sicurezza post-moderna, di chi sceglie di accostarsi a un genere ormai dissolto, per indagare con un "linguaggio d'epoca", un passato mai raccontato i cui punti di contatto con il presente sono assolutamente evidenti...

Il romanzo Budapest Noir, di Vilmos Kondor, è proposto ai lettori italiani da E/o.



(1)Vilmos Kondor, Budapest Noir, traduzione di Laura Sgarioto, E/o, Roma 2009, p. 18.
(2)Se non per quel collaterale effetto giustizialista, che, si è detto, al detective non interessava affatto.
(3) Tant’è vero che, sul finire del romanzo, l’amareggiato Gordon così si rivolge ad un giovane giornalista «Si ricordi che il suo compito è scrivere ciò che è successo […] Scoprire il perché non è affar suo». (Ivi, p. 263).
(4)L’esempio più noto e lampante di questa tendenza dell’hard boiled, che mette in crisi la normale, rigida distinzione sociale in gioco nel giallo classico (all’interno del quale, come è noto, solo aristocrazia e alta borghesia avevano diritto ad una rappresentazione attiva, e i personaggi d’estrazione popolare trovavano spazio, al più, come comprimari), rivelando la corruzione delle classi dirigenti, è probabilmente rintracciabile nel capolavoro chandleriano Il grande sonno. Questa scoperta, che oggi suona forse scontata e banale, è forse una delle maggiori conquiste dell’hard boiled.
(5)O almeno così sembra “a sensazione”, e gli editori ungheresi confermano: «Kondor è stato estremamente meticoloso nelle sue ricerche. Ha controllato ogni fatto, pescando da articoli e giornali contemporanei ai fatti narrati – si è spinto fino a includere dei passaggi di storie pubblicate all’epoca» (http://www.budapestnoir.hu/eng/edit.html, traduzione mia).

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Thursday, January 07, 2010

Rachid Djaïdani: Viscerale. Un grido dalle banlieue


Primo agosto. I primi raggi di sole incendiano un immenso quartiere di periferia, il più sballato del territorio gallico. Inaugurato trent’anni fa, non ha denominazione controllata, niente etichetta, niente annata. Qui i ratti indossano completi di teflon. Gli scarafaggi fanno smurf sulle scie degli sputi. I pit-bull tirano piste di coca prima di azzannare i marmocchi. Il cemento ha l’herpes curato con il Kärcher, i fili spinati l’AIDS e la dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è una barzelletta che circola sottobanco.”(1)

Parigi, oggi. per le vie di una periferia urbana mestamente multiculturale, nella quale ogni sogno di rivalsa si riduce, nella migliore delle ipotesi, a un miraggio lontano, che aiuta a tirare avanti finché non ci si scontra con una realtà fatta di porte chiuse e cemento armato, il ventitreenne Lies, comproprietario di un quasi fatiscente call-center, coltiva il pugilato agonistico come unica via di fuga dal ghetto. Presentendo la fine della carriera -annunciata, in maniera via via più sfacciata, dall’emergere di un invadente problema agli occhi -, e convinto delle potenzialità di altri giovani avanzi di banlieue, piccoli fantasmi di un passato non troppo lontano, il pugile si è messo a insegnare la noble art all’interno della palestra del quartiere e in carcere. E i ragazzi, una squadra intera di giovani pugili “arrabbiati”, hanno deciso di seguirlo: quelli dentro dedicandosi anima e corpo agli allenamenti, quelli fuori preparandosi per il debutto sul ring, a Marsiglia, in un'importante competizione ufficiale.
Ma il già citato scontro(2) con la dura realtà è dietro l’angolo: quando l’evento di Marsiglia viene cancellato, l’ira dei ragazzi si rovescia sull’allenatore; intanto, il call-center è messo letteralmente sottosopra, la palestra è resa inservibile, e il suicidio di uno dei carcerati provoca l’immediata sospensione del corso. Lies si ritrova improvvisamente privo di ogni prospettiva futura: l'incontro (fortuito) con la responsabile di un casting cinematografico sembra l'unico evento in grado di sottrarlo alla sua condizione... ma il destino è sempre in agguato.

Scritto con una libertà lessicale che “complica”(3) dialoghi e descrizioni, imponendosi, però come insuperabile garanzia di realismo, straripante di immagini “pop” e pubblicità, ritmi hip-hop e fortunate trovate antirazziste, stile cinematografico e ammiccamenti vari(4), Viscerale. Un grido dalle banlieue, terzo romanzo (ma primo ad approdare nelle librerie italiane) del trentaseienne ex muratore, ex boxeur, attore e regista Rachid Djaïdani, riesce a combinare una serie di noti clichés del genere (quasi tutti di origine americana), in una narrazione nerissima, credibile, mai scontata, di grande impatto, che conquista, dopo lo sconforto linguistico iniziale(5), anche i lettori più scettici, mantenendoli incollati alla pagine fino al tragico, imprevedibile epilogo.

Il romanzo Viscerale. Un grido dalle banlieue, di Rachid Djaïdani, è proposto ai lettori italiani da Giulio Perrone editore.




(1)Rachid Djaïdani: Viscerale. Un grido dalle banlieue, traduzione di Ilaria Vitali, Giulio Perrone Editore, Roma 2009, p. 5.
(2)Superficiale e scontato, forse, ma quasi d’obbligo, citare, qui, la celeberrima linea di dialogo “L'important c'est pas la chute...C'est l'atterrissage”, tratta dal film La Haine, di Mathieu Kassovitz, che il romanzo Djaïdani richiama alla mente per atmosfere e morale…
(3)L’interpretazione non è sempre agevole, ma in fondo è giusto così: solo scegliendo una lingua sgrammaticata, orale, “anarchica”, gergale (ma in maniera quasi mai compiaciuta), attuale, mimetica, presa direttamente dalla strada, l’autore può rendere fedelmente la realtà della banlieue; e, a noi lettori dell’edizione italiana, non resta che fare i complimenti a Ilaria Vitali per la scioltezza della traduzione.
(4)A guardare "dietro il testo", si ritrova, nell'autore, una cultura cinematografica e letteraria che lui stesso sembra restio ad ammettere, per modestia o per snobismo intellettuale.
Notevole, tra le altre, la sequenza finale, che richiama alla mente -ma senza citare- il godardiano Fino all'ultimo respiro.
(5)Ma, d’altra parte, lo stesso si prova attaccando (in lingua) le prime pagine dell’antologia Rope Burns di F.X. Toole, il cui valore è ormai quasi universalmente riconosciuto…

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Sunday, January 03, 2010

NonSoloNoir saluta Rowland S. Howard


Il 2009 era già destinato a chiudersi "in nero", per la scomparsa del cantautore Vic Chesnutt, morto il 25 dicembre; poi, mercoledì 30, il mondo della musica è stato ulteriormente scosso dall'inattesa dipartita dell'appena cinquantenne Rowland S. Howard, ucciso da un tumore al fegato. "Non aveva voglia di morire", ha dichiarato Mick Harvey, storico collaboratore di Nick Cave, coinvolto nella registrazione dell'ultimo album di Howard, Pop Crimes, uscito a ottobre 2009, a dieci anni di distanza dal precedente Teenage Snuff Film. Lo stesso Howard aveva confessato, nel corso di un'intervista, di essere in attesa di un trapianto di fegato, e di aver voluto affrettare le registrazioni dell'album nel timore che le cose potessero "non andare così bene".
Personaggio forse poco noto, ma essenziale nella creazione delle sonorità new wave-punk australiane che, rese note da Nick Cave e i suoi Bad Seeds (per citare solo la band più nota), si sono rivelate molto influenti nella nascita degli innesti gothic-blues e gothic-country che hanno visto l'apice di popolarità negli anni '90, Howard aveva iniziato la sua carriera negli "Young Charlatans". Ma solo accanto a Nick Cave, nella storica formazione dei "Boys Next Door", il chitarrista, autore del brano Shivers (in seguito divenuto, grazie ad una coppia di importanti cover, quasi un inno dell'alternative australiano), aveva ricevuto i primi riconoscimenti.
Membro essenziale dei "Birthday Party" (basta ascoltare brani come Jennifer's Veil per rendersi conto dell'importanza del lavoro di Howad nella costruzione del suono), il chitarrista si era trasferito in Europa negli anni '80.
Lasciati i "Birthday Party" in seguito alla rottura con il cantante Nick Cave, Howard era entrato nei mitici "Crime and the City Solution" (1985-1986), partecipando, tra l'altro alla registrazione dello storico EP The Dangling Man, per poi formare, nel 1987, la band "These Immortal Souls".
Negli ultimi anni, nonostante l'assenza dalle scene (se non per una serie di prestigiose collaborazioni, e per il riuscito ma poco noto Teenage Snuff Film) la sua popolarità era in netta ripresa.
Howard ci lascia con una manciata di album da riscoprire, un ultimo lavoro ancora da digerire (nel già mitico Pop Crimes, il chitarrista, in vena di bilanci o cinicamente autoironico ha anche inserito una cover del classico Life's What you make It dei Talk Talk), e un'importante eredità sonora che ha ormai superato i limiti del gothic per invadere generi musicali di più ampia diffusione.




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