Sunday, September 28, 2008

M- Holly Golighly & the Brokeoffs: Dirt Don’t Hurt



In uscita in questi giorni per “Damaged Goods” il nuovo album di Holly Golightly & the Brokeoffs.

Holly Golightly (1), quarantaduenne con poco meno di una ventina di album alle spalle, ex cantante del gruppo garage The Headcotees, ormai solista affermata, abbandona momentaneamente il consueto sound anni ’60, e produce una serie di brani artigianali e decadenti, autunnali(2), polverosi, rurali, scricchiolanti come foglie.

Nell’album, quattordici pezzi per poco più di 42 minuti, sonorità alla Tom Waits (Slow Road, Three times under(3), Indeed you do) incontrano brani, folk, gospel/blues corali (la bella Getting High for Jesus, degna, almeno per le scelte percussive - cucchiai? pentole? paioli di bronzo? - di un’improvvisata parata per il Mardi Gras ), le chitarre riverberate e twangy dei lavori precedenti, cedono il passo a strumentazione acustica, chitarra slide e banjo (Accuse Me, Indeed you do ecc.) e suoni invecchiati con mezzi e tecniche di registrazione compiaciutamene lo-fi.

La scrittura è piuttosto convenzionale e si appoggia senza riserve ai vari clichés relativi alla musica tradizionale americana(4), ma resta accurata e tutt’altro che spiacevole.

Belle Burn Your Fun, Bottow Below e My 45, meravigliose le due ballate Up on the floor e For all this (probabilmente vera e propria perla dell’album).

Un piccolo, riuscitissimo omaggio o monumento dal gusto post-moderno alla musica roots americana, che piacerà a tutti gli amanti del genere…

 


 

 (1) Non si tratta di un nome d’arte: due genitori un po’ folli l'hanno davvero registrata all'anagrafe con il nome della famosa protagonista del romanzo Colazione da Tiffany di Truman Capote, interpretata al cinema da Audrey Hepburn…

(2) L’album, che allude, fin dalla copertina, ad Halloween, sarà probabilmente reperibile, in Italia, proprio per la fine di ottobre.

 (3) Il brano richiama, almeno dal punto di vista melodico, la ballata tradizionale appalaca In the pines (generalmente attribuita a Leadbelly), già ripresa dai Nirvana e riproposta, con il titolo di Where did you sleep last night, in diversi live shows.

(4)Ma d’altra parte si tratta di brani “folk” scritti al di fuori della loro terra d’origine, e  poi, per la produzione della musica folk non esistono più le condizioni politiche, economiche, sociali, culturali…

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Tuesday, September 16, 2008

L- Jean-Patrick Manchette: Piccolo Blues

Georges Gerfaut ha tutto: una bella moglie, due figli, un buon lavoro in un’importante società, una tranquilla vita alto-borghese faticosamente costruita a dispetto dei vecchi ideali socialisti. La sua tranquillità volge al termine quando, di ritorno da un viaggio di lavoro, soccorre un uomo che ritiene vittima di un incidente stradale, ma che rivela, allo sguardo dei medici, delle ferite d’arma da fuoco: inseguito da una coppia di killer professionisti e sospettato dalla polizia(1) Gerfaut è costretto a darsi alla fuga e preparare un contrattacco…


I tratti distintivi della narrativa di Manchette sono senza dubbio da rintracciare nella ritmica feroce e nel linguaggio tanto lucido e realistico da risultare scarno. La violenza, quella delle pellicole di Peckinpah, implicita nel modo di vita borghese, disgustosa se analizzata a freddo, ma irrinunciabile(2) funziona come vero motore del romanzo.

L’azione è tanto rapida e coinvolgente da occultare quasi completamente il carattere parabolico dell’opera (se non fosse per gli accenni in apertura(3) e in chiusura(4) al romanzo neppure i lettori più attenti vi farebbero caso).

Splendidi i dialoghi, piacevole la critica del consumismo (mai esagerata e condotta con grande ironia), ineccepibile la corrispondenza tra gusti musicali e carattere dei personaggi.


Il romanzo Piccolo Blues di Jean-Patrick Manchette, che rappresenta forse uno dei punti più alti del polar e del noir europeo in generale, è stato portato sugli schermi nel 1980, con il titolo di 3 Hommes à abbattre, per la regia di Jacques Deray e interpretato da Alain Delon e Dalila Di Lazzaro. Gli amanti del fumetto apprezzeranno di certo la bella trasposizione firmata Jacques Tardi (in Italia è edita da BD).


Piccolo Blues di Jean-Patrick Manchette è edito in Italia da Einaudi.

(1) Preso dall’impazienza di tornare a casa Gerfaut è fuggito dall’ospedale senza declinare le sue generalità…

(2) Gerfaut in Piccolo Blues come David Summer/Dustin Hoffman in Cane di paglia di Peckinpah libera la naturale inclinazione alla violenza e ricorre alle riserve di energie istintuali che, sepolte sotto il peso della civiltà, sono sempre pronte a riemergere anche nell’uomo moderno. La vita tranquilla del mito borghese, distrutta da condizioni materiali incidentali, viene ricostruita in maniera violenta, e cioè attraverso una momentanea sospensione delle regole etiche che si presume siano alla base della modernità. Si crea così un paradosso: pare infatti che, in determinati frangenti, solo l’individualismo (ma un individualismo consapevole, e compiaciuto, non vergognoso di sé e mascherato come quello vigente nel mondo degli affari) possa garantire la sopravvivenza della società.

(3) “La raison pour laquelle Georges file ainsi sur le périphérique avec de refléxes diminués et en ecoutand ce musique-là il faut la chercher surtout dans la place de Georges dans le rapports de production”. / La ragione per la quale Georges corre così sulla periferica con in i riflessi diminuiti e ascoltando quella determinata musica, è da ricercare innanzi tutto nel posto occupato da Georges nei rapporti di produzione. (J.-P. Manchette, Le Petit Bleu de la Côte Ouest, Folio Policier, Gallimard, Paris 2008, p. 8, traduzione mia).

(4) “Une fois, dans un contexte douteux, il a vécu une adventure mouvementée et saignante; et ensuite tout ce qui’il a trouvé a faire, c’est rentrer au bercail”. / Un tempo, in un contesto ambiguo, ha vissuto un avventura movimentata e sanguinosa; alla fine tutto quello che ha trovato da fare è stato rientrare all’ovile. (J.-P. Manchette, Le petit bleu de la côte ouest, Folio Policier, Gallimard, Paris 2008, p. 184, traduzione mia).

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Sunday, September 14, 2008

L- Joe R. Lansdale: Fuoco nella polvere

Wild Bill Hickock, Annie Oakley, Toro Seduto, Buffalo Bill, e gli altri protagonisti del Wild West Show si recano in Giappone su una flotta di Zeppelin per una missione diplomatica: gli Stati Uniti appoggiano politicamente e materialmente (con l’invio di numerose casse di armi da fuoco) il signore feudale Takeda, futuro imperatore, dal quale si aspettano la restituzione di una serie di terre costiere.

Buffalo Bill (ridotto a una testa priva di tronco da una moglie gelosa, e tenuto in  vita artificialmente), che, come ambasciatore e capo della spedizione ha il compito di stringere i rapporti con Takeda, persegue l’obbiettivo segreto di recuperare il mostro di Frankenstein (in possesso dello shogun, che usa la sua carne come afrodisiaco), attraverso lo studio del quale i dottori Morse e Maxxon, che hanno inventato il sistema di conservazione della sua testa, saranno in grado di restituirgli un corpo.

Durante la fuga dal Giappone lo Zeppelin del Wild West Show viene abbattuto dalla flotta aerea giapponese, e i protagonisti finiscono sull’isola del crudele dottor Momo, uno scienziato che, dedicatosi per anni agli esperimenti di clonazione sugli animali, non vede l’ora di passare ai test sugli umani…


Continua presso Fanucci l’edizione del vasto corpo di inediti di Lansdale: dopo il Western-Horror La morte ci sfida, esce questo Fuoco nella polvere (edito in America nel 2001), incredibile ed esagerato pastiche che sembra conciliare Il mago di Oz di Frank Baum con La fattoria degli animali di George Orwell, e condire il tutto con una buona dose di ironia e una incostante riflessione sulla clonazione e i suoi rischi.

Solamente Joe R. Lansdale poteva produrre un incontro tra gli eroi del vecchio west e personaggi come Dracula, Frankenstein, l’uomo di latta, il capitano Nemo ecc., senza risultare mortalmente noioso e mantenendosi al di qua della linea del ridicolo.


Il romanzo Fuoco nella polvere di Joe R. Lansdale è edito in Italia da Fanucci.

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Thursday, September 11, 2008

L- James Lee Burke: L’urlo del vento

2005. Mentre l’uragano Katrina impazza per le vie di New Orleans, quattro piccoli criminali si aggirano per le strade allagate su una barca rubata (a un prete cattolico morfinomane)(1) e saccheggiano le case evacuate. Ignari di trovarsi nella villa del temibile Sidney Kovick i balordi rubano contanti, droga e pietre preziose, ma, mentre tentano la fuga, una fucilata proveniente dal lato opposto della strada uccide due di loro e costringe gli altri a nascondere la refurtiva e separarsi.

In fuga dalla polizia, da un gangster intenzionato a recuperare i diamanti, e da un paio di personaggi inquietanti e misteriosi, i due superstiti si muovono senza speranza sullo sfondo di una New Orleans distrutta.

Dave Robicheaux, reduce del Vietnam, ex poliziotto, ex alcolizzato, assistente dello sceriffo di New Iberia, è chiamato a indagare sulla fucilata che ha ucciso i due ladri, e intanto cerca, tra le macerie di New Orleans, un amico scomparso…


In Italia non si rilegge più, né si correggono bozze, e la cosa è lampante, altrimenti non si spiegherebbero frasi come “Gli misi le braccia attorno alle spalle, appoggiandole una mano sul collo”(2), “E’ questo che gli [le] ha insegnato sua madre? A non tenere le mani sporche?”(3) e addirittura “Si alzò e si avvicinò all’uscio e cercò di poter sbirciare attraverso uno dei pannelli ricurvi della parte superiore senza essere vista dalla persona che si trovava all’esterno”(4), leggibili nell’ultimo romanzo di James Lee Burke, ma questa scarsa attenzione ai “particolari” non si riflette certo sul prezzo dei libri(5).

Se L’urlo del vento, tanto amato in America, non convince, non è tuttavia solo per colpa della traduttrice italiana Nicoletta Brazzelli(6): l’intreccio è pesante, macchinoso, largamente prevedibile; il ritmo va spesso smarrito, l’azione è incostante, imprecisa. La descrizione dell’uragano e dei suoi effetti, che sul principio sembra interessante, finisce per occupare una parte troppo ampia del romanzo. Robicheaux è diventato, negli anni, un vecchio bacchettone indeciso e quasi inetto al quale nulla (o quasi nulla) resta della gloria passata. Le pagine sono attraversate da un insopportabile pasticcio di patriottismo, fanatismo cristiano e ignoranza geopolitica tipica degli americani; le memorie dell’11 settembre (nel romanzo diviene, per opera della traduttrice, il 9 settembre) si confondono con quelle di New Orleans colpita dall’uragano Katrina (chissà in che modo i terroristi avranno imparato a dirigere le tempeste…), e  la città distrutta viene poi paragonata a Baghdad (quindi chissà, forse anche gli americani hanno ottenuto il controllo sugli elementi...); l’ignoranza, la grossolaneria, il provincialismo che segnano alcuni brani del romanzo, sembrano ispirati da Bush in persona...

I bei personaggi comprimari e la penna di Burke (non del tutto spuntata, ma neanche al massimo della forma e in più al servizio di una morale insopportabile), non bastano a salvare un romanzo deludente sotto ogni altro aspetto.


Sconsigliato a tutti; consigliato in versione originale a chi proprio non possa fare a meno di leggerlo.

 

Edito in Italia da Fanucci, L’urlo del vento è il primo romanzo di Burke pubblicato dalla casa editrice romana (in precedenza le avventure di Robicheaux erano uscite nella serie dei Gialli Mondadori, erano state pubblicate da Baldini e Castoldi e recentemente riproposte dalla padovana Meridianozero).

 


(1) La grande qualità di James Lee Burke è forse il saper creare personaggi che, appena tratteggiati, restano vivamente impressi nella mente dei lettori.

(2)James Lee Burke, L’urlo del vento, Fanucci, Roma 2008, p. 293 (corsivo nostro).

(3)Ivi, p. 317 (corsivo nostro).

(4)Ivi, p. 333 (corsivo nostro).

(5) L’urlo del vento, che tradisce fin dalla veste grafica il suo carattere di mattone da spiaggia riciclabile come spessore per la gamba zoppa d’un tavolo o di una sedia, è in commercio per la modica somma di 18,50 Euro.

(6)Responsabile delle sviste e degli strafalcioni che turbano la coscienza linguistica del lettore (non si intravede la linea di demarcazione tra sgrammaticatezza, voluta, dei dialoghi e errore logico/grammaticale nato nella traduzione) Nicoletta Brazzelli è evidentemente ignara della pessima qualità del suo lavoro, pospone infatti all’opera una pignolissima Nota del traduttore(pp. 435-438)…

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Monday, September 08, 2008

L- Benjamin Tammuz: Il Minotauro

“Un tale, che era un agente segreto, parcheggiò in una piazza bagnata dalla pioggia la macchina che aveva preso a nolo, e salì sull’autobus per andare in città”.(1)


Dopo una vita da agente segreto, spesa nella menzogna e nell’odio, un quarantunenne incontra la ragazza dei suoi sogni. Messi in atto i trucchi del mestiere per scoprire tutto il necessario sulla ragazza, l’uomo decide, data la grande differenza di età (la giovane Thea ha appena 17 anni), di non presentarsi di persona, ma di iniziare un lungo rapporto epistolare.

La relazione tra i due dura alcuni anni finchè, delusa ed estenuata dal comportamento dell’agente segreto (che, conquistatala con le sue frequenti e sentite lettere resta deciso a non presentarsi), Thea accetta di sposare G.R., un facoltoso compagno di studi; quando questo perde la vita in circostanze misteriose la ragazza intravede, dietro l’inattesa disgrazia, la mano dell’antico spasimante. Intanto, un misterioso e maturo uomo medio-orientale entra nella sua vita… 


Scritto in uno stile piano, poco descrittivo, essenziale, che enfatizza l’interiorità dei personaggi a dispetto dell’azione,  basato su un intreccio chiaro, quasi completamente privo di colpi di scena, menzogne e tradimenti(2) (tutti quegli elementi, cioè, che fanno del normale romanzo di spionaggio ciò che è…), Il Minotauro di Benjamin Tammuz è uno strano racconto spionistico dalle tinte rosa e dal gusto spiccatamente post-moderno, o piuttosto un romanzo rosa in salsa spionistica.(3)

L’intreccio è decisamente lineare, non sempre efficace e certamente non brillante, ma l’opera, costruita con capitoli apparentemente scollegati che convergono nel finale (purtoppo piuttosto prevedibile), riesce comunque a mantenere viva l’attenzione del lettore.(4)

Tammuz ha la capacità (si tratta quasi di alchimia) di suggerire retroscena misteriosi con poche parole inserite al punto giusto, ma disgraziatamente non la sfrutta appieno.

Un tentativo curioso, piuttosto riuscito (piacerà ai lettori a patto che non si aspettino un romanzo di spionaggio), ma irripetibile.


Il romanzo Il Minotauro di Benjamin Tammuz è edito in Italia da e/o.

 

 

 

(1)Benjamin Tammuz, Il Minotauro, e/o, Roma 2007, p. 7.

(2)Le menzogne, la tensione e il tradimento osservabili ne Il Minotauro sono relativi ai rapporti amorosi, e le tecniche dello spionaggio, svuotate da ogni scopo politico, diventano mezzi di realizzazione di un’improponibile relazione sentimentale a distanza tra la giovane Thea e l’agente segreto.

(3)Anche se la casa editrice e/o lo presenta, con mossa commerciale azzeccata, come spy story.

(4)Fanno eccezione alcune noiose parentesi relative all’infanzia dell’agente segreto.

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