Monday, November 30, 2009

Premio Scerbanenco, chiuse le semifinali


Sono stati resi noti, oggi, i risultati della fase semifinale del premio Scerbanenco. I cinque romanzi selezionati sono, nell’ordine: Io ti perdono di Elisabetta Bucciarelli, Morte a Firenze di Marco Vichi, Il suggeritore di Donato Carrisi, In terra consacrata di Ugo Barbàra e Il posto di Ognuno di Maurizio De Giovanni (1).
Comincia ora la fase conclusiva del premio. Intanto, sul sito ufficiale del festival di Courmayeur, al quale il premio è associato, le polemiche infuriano e, se i toni sono relativamente moderati rispetto all'anno scorso, quando alcuni dei partecipanti avevano gridato al broglio, sui forum(http://www.noirfest.com/forum.asp) non mancano i lettori pronti a disquisire, con italica (ma forse non incomprensibile) sfiducia, sulla chiusura anticipata delle votazioni; altri polemizzano sullo scarso valore accordato alle preferenze del pubblico votante.
Insomma, fase uno superata, non senza le consuete polemiche; attendiamo ora l'esito della seconda votazione augurandoci, come al solito, che vinca il migliore, senza calcoli nè considerazione per gli editori, senza disguidi e scelte di comodo...

(1) I dettagli sulle votazioni, e la classifica completa sono reperibili qui.

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Sunday, November 29, 2009

Kem Nunn, Surf City


Una mia recensione del romanzo Surf City di Kem Nunn è appena stata pubblicata sul Web Press Milano Nera.
(http://www.milanonera.com/?p=3403)

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Friday, November 27, 2009

Valerio Varesi: Il paese di Saimir


“Sa quel palazzo… Quello di quattro piani?”
“Eh, e allora?”
“C’è stato un incidente.”
“Che incidente, cazzo!”
“È venuto giù”(1)


“Il ciclo illegale del cemento è una delle principali fonti di finanziamento per le organizzazioni criminali, mafiose e non. Dalle cave abusive all’abusivismo edilizio, dagli appalti per le opere pubbliche alle truffe ai fondi pubblici, passando per l’utilizzo di lavoratori in nero”(2). Così si esprime Antonio Pergolizzi, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente, nelle sue note conclusive a Il paese di Saimir di Valerio Varesi. Dovrebbero bastare queste poche righe, lineari enunciazioni di ovvi dati di fatto, a chiarire il valore del romanzo, e invece non è così: ormai lo sappiamo, lo spunto documentario, l’attenzione per le aberrazioni criminali a forte impatto ambientale (e non solo) è una costante dei libri della collana Verde Nero; ed è bene che sia così, perché la singolarità del racconto sottrae i crimini alla distante ripetitività (e quindi, in un certo senso “normalità”) del caso di cronaca che accade e ri-accade, sempre uguale a se stesso, richiamando l’attenzione del lettore. Ma Il paese di Saimir non è solo questo. Non è un semplice "promemoria", nè un saggio romanzato, ma un romanzo ben calcolato, costruito, emotivamente efficace.
Andiamo con ordine.
Domenica pomeriggio. Altin, Mentor, Sabri e Saimir, quattro clandestini albanesi arrivati in Italia per cercare fortuna, e miseramente approdati in un cantiere edile gestito dal detestabile duo Rivalta (imprenditore edile)- Inardo (capomastro), restano vittime di un terribile incidente: a causa di un errore nell’abbattimento di un muro, il palazzo nel quale stanno lavorando si ripiega su se stesso e crolla. I muratori, tutti impiegati in nero, lasciano il cantiere in fretta e furia. È una fuga alla spicciolata, la loro: ognuno si allontana come può, il più in fretta possibile, per evitare che l’intempestivo (o troppo tempestivo) arrivo di pompieri e forze dell’ordine si risolva con un foglio di via e il crollo di tutte le prospettive, la morte delle "grandi" opportunità.
Solo dopo essersi ritrovati a casa, e avendo recuperato la calma, i clandestini si rendono conto della scomparsa del diciassettenne Saimir. Incerti sul da farsi, ma sicuri di non poter richiedere l’intervento di forze dell’ordine e protezione civile, Altin, Mentor e Sabri decidono di battere le strade della città alla ricerca del compagno, smarrito –così sperano-, nel corso del breve tragitto dal cantiere a casa.
Intanto, sotto le macerie, il giovane Saimir sogna la madre lontana, il coraggioso cane Jack, rimasto in patria, e il mare visto dall’alto di una collina. I soccorsi arriveranno presto.
Forse.
O, forse, l’intervento dell’imprenditore, deciso a mettere tutto a tacere, e l'idea del connazionale Smirald, pronto a montare un pericoloso ricatto, convinceranno i vecchi compagni ad abbandonare Saimir...

Questo è Il paese di Saimir: un romanzo “politico”, che si serve di stile e meccanica, di stratagemmi tipici del noir per raccontare una storia che travalica il “semplice” intreccio criminale, prendendosi carico di temi quali immigrazione, clandestinità, lavoro nero e morti bianche (e che quindi, volendo approfittare di un controverso neologismo, si potrebbe definire post-noir, se solo non fosse che la nuova etichetta si riferisce a tutto e a niente)… ed è la “cronaca di una morte annunciata”, riportata direttamente dalla vittima in un’autonarrazione che alterna immagini distanti e “familiari” alle anguste prospettive del sepolto vivo; o riferita in maniera distaccata, in terza persona, come a voler prendere le distanze dagli altri personaggi, tutti irrimediabilmente colpevoli. È una “congiura degli innocenti” alla quale si assiste impotenti, in un crescendo di rabbia e disgusto, fino al buio, sconsolante finale.

Il paese di Saimir di Valerio Varesi, semifinalista al “Premio Scerbanenco” (http://www.noirfest.com/scerbanenco.asp), è edito da Edizioni Ambiente.



(1) Valerio Varesi, Il paese di Saimir, Edizioni Ambiente, Milano 2009, p. 10.
(2) Antonio Pergolizzi, I fatti, in Valerio Varesi, Il paese di Saimir, cit., p. 305.

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Thursday, November 26, 2009

Luca Poldelmengo: Odia il prossimo tuo


Roma, oggi.
Su per la collina, Andrea pedala veloce per contrastare la pendenza, spingendo la bicicletta verso un tornante che sembra non arrivare mai. Cristiano, un giovane di buona famiglia, si arrampica sul versante opposto, alzandosi, di quando in quando, sui pedali. Flavio “il rosso” richiede alla sua vecchia Lancia “Stratos” un’ultima corsa prima del pensionamento. Deve salire rapidamente, se vuole sistemare tutto. Sul bordo della strada, la giovane Tegla, segnata dalla vita e invecchiata troppo in fretta, come tutte le prostitute, siede “all’incontrario” su una sedia male in arnese, “le gambe larghe e le braccia posate sullo schienale”(1). Più in basso, a poche curve di distanza, il cadavere di un piccolo malavitoso giace abbandonato in una pozza di sangue che, lentamente, si allarga, sotto l’unico occhio curioso di una piccola zinagara.

Comincia e finisce così (o quasi), Odia il prossimo tuo, di Luca Poldelmengo, in un furioso intreccio di esistenze allo sbando, un cozzare di solitudini violente e forzate, una somma di individui incapaci di lasciarsi il passato alle spalle, che finiscono, per questo, per odiare gli altri “come se stessi”; persone per le quali la redenzione è, o sarebbe sempre a portata di mano, ma forse, alla fine, il destino è troppo forte, e non a tutti è data una seconda possibilità.
I personaggi di Poldelmengo si muovono in un mondo perfettamente ordinato, almeno per quanto riguarda le apparenze: c’è il buon padre democristiano –uomo d’affari di successo- che si ritrova a trascurare la moglie e “vivere nel peccato”; c’è l’ex brigatista quasi redento pronto a tornare sulla cattiva strada per offrire una seconda chance a un ragazzo che molto probabilmente non la merita; c’è l’ex campione che ha paura di riprendere la bicicletta e che decide di salvare una puttana, ma finisce per offrirle un nuovo “posto di lavoro” (nel senso geografico del termine), invece di aiutarla a cambiar vita(2); ci sono i figli di “buona famiglia”, annoiati, maleducati, capricciosi, prepotenti. E poi ci sono le puttane, sfruttate e incapaci di sottrarsi ad una vita terribile: pronte, anzi, a sprofondare sempre di più in una miseria esistenziale che sembra la penitenza per una colpa mai commessa. Ci sono i protettori, gli sfruttatori, i clienti. C’è il sogno di un amore impossibile. Il sogno di una nuova vita. La speranza che, pur vana, è sempre l’ultima a morire (ma poi, comunque muore...).
C’è, insomma, in poco più di 180 pagine, un mondo nerissimo, periferico e iperrealistico (somiglia tristemente al nostro), rappresentato da una serie di personaggi meravigliosamente delineati, e “riassunto” in una vicenda esemplare nella sua “distorsione”; una vicenda rapidissima, precisa e oliata come un orologio svizzero, a patto che svizzero sia anche l’orologio che batte l’ora delle condanne a morte…
E c’è, infine, sul volto e tra le mani di un giovane personaggio comprimario, la rinascita di una violenza “ingenua”, che in un mondo così “buio”, riesce a strappare un sorriso soddisfatto, e sembra più giusta della “seconda opportunità” offerta ad uno dei protagonisti.

Lo stile è, come si conviene al genere, contenuto, “basso”, colloquiale. La narrazione -affidata ad un unico narratore extradiegetico e al classico (ma sempre funzionale) regime di focalizzazione zero- è tirata avanti per pezzi brevi (a volte brevissimi), in un montaggio di brani che, alternando le vicende dei personaggi principali prefigura (o meglio prefigurerebbe, se non fosse per l’excipit riportato in apertura), l’incontro-scontro finale tra i protagonisti, secondo un modo tipico del cinema d’azione.
Al di là delle scelte tecniche, l'impianto cinematografico del romanzo è lampante, e forse non vale neppure la pena disegnalarlo: basta gettare uno sguardo alle note biografiche dell’autore, narratore esordiente ma già sceneggiatore del pregevole Cemento Armato, per rendersene conto; e poi la citazione in epigrafe dal melvilliano Le Cercle Rouge e i titoli dei capitoli, che rimandano a film più o meno noti, da Raining Stones di Ken Loach a Passato Prossimo di Maria Sole Tognazzi, da I pugni in tasca di Marco Bellocchio a History of Violence di Cronenberg e così via fino a Rosso come il cielo di Cristiano Bortone(3), parlano chiaro: Odia il prossimo tuo è la prima prova di un noirista-cinefilo che si dimostra estremamente a suo agio nella veste di romanziere, ma che non ha nessuna intenzione di rinnegare le pregresse esperienze cinematografiche. E, date le premesse, noi appassionati del genere non possiamo che augurarci che a Luca Poldelmengo sia lasciato ampio spazio su entrambi i fronti.

Il romanzo Odia il prossimo tuo, di Luca Poldelmengo, finalista al “Premio Azzeccagarbugli” e ora tra i semifinalisti del “Premio Scerbanenco” (http://www.noirfest.com/scerbanenco.asp), è edito da Kowalski.



(1)Luca Poldelmengo, Odia il prossimo tuo, Kowalski, Milano 2009, p. 13.
(2)Il dialogo nel quale le “dolci” aspettative di Tegla si infrangono contro l’assoluta mancanza di tatto, il folle disinteresse verso il futuro del determinato Andrea, è un brano incredibilmente riuscito che vale la pena di segnalare, anche inserito in un romanzo ben scritto come Odia il prossimo tuo.
(3)D'altronde lo stesso titolo del romanzo rimanda (e per verificare il motivo di quella "strana familiarità" che forse avrà afferrato anche voi al primo incontro con questo libro, basta una semplice ricerca su Google) ad uno spaghetti western di Ferdinando Baldi.

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Tuesday, November 24, 2009

Paola Ronco: Corpi Estranei


Correvamo da un angolo all’altro di una città che ormai non riconoscevamo più, sfuggivamo ai lacrimogeni e ai blindati, e io cascavo giù come una pera ogni tre passi. Ogni tanto qualcuno mi raccattava da terra, bestemmiava piano, riprendeva a correre. Ripenso a tutte queste cose, e intanto fumo e resto seduta. Davanti a me c’è un pezzo di fiume che conosco poco; da queste parti non ci vengo mai, di solito il Po me lo guardo dai Murazzi.(1)


Torino, oggi.
Mauro Cabras è un poliziotto; un buon poliziotto, direbbe qualcuno. Per altri è solo un uomo dal grilletto facile. Uno incapace di controllarsi, che porta sul corpo le tracce di un errore passato - un errore per il quale non prova, o si sforza di non provare, alcun rimorso. E i colleghi lo sanno, e lo guardano con un misto di rispetto e compassione.
Silvia, addetta stampa e p.r., è sempre sull’orlo del licenziamento (in un mondo di precariato diffuso, le stagiste giovani, carine e servizievoli, non mancano mai, e anche il minimo errore può rivelarsi fatale…), e vittima di una coppia di insopportabili dirigenti. Eppure, tutto questo non basta a spiegare lo stanco disgusto che prova nei confronti del fidanzato Luciano, un avvenente poliziotto che è l’invidia di tutte le colleghe. Che cosa, esattamente, la tormenta?
La giovane studentessa universitaria Alessia, scioccata da un tragico passato, si arrabatta tra contratti a termine rimediati con l’“aiuto” di un’agenzia interinale, esami superati alla bell'e meglio (2) e piccole-grandi lotte con due disordinati e rumorosi coinquilini. Ma da qualche anno, alcune situazioni la terrorizzano, è convinta di non poter più respirare, teme di scoprirsi vittima di un tumore ai polmoni, non ha più progetti per il futuro.
I tre personaggi si incontrano e si scontrano, si inseguono e si sfuggono, si riconoscono e si allontanano, sullo sfondo di una Torino perfettamente realistica; intanto, una banda di imprendibili giustizieri si aggira per la città –a bordo di una misteriosa Opel nera decorata di gagliardetti fascisti, assicurano alcuni testimoni- “ripulendo” le strade da “barboni, extracomunitari, tossici allo sbando”(3)…

Costruito a “tre voci” grazie ad un’inedita miscela di focalizzazione interna (Alessia) e narrazione in terza persona (narratore esterno e focalizzazione zero, che però si adatta ai limiti dei personaggi “raccontati”, concedendo al lettore solo ciò che essi stessi sono pronti a richiamare alla mente(4)), il romanzo può contare, oltre che su una lingua lucida, piacevolmente familiare, “ristretta” e priva di fronzoli, su una scelta dei tempi azzeccatissima, che mantiene viva l’attenzione del lettore fino alle ultimissime pagine, attraverso un montaggio di brani studiati per svelare “sottraendo”, negando tutta una serie di particolari essenziali per la ricostruzione della vicenda. E l’effetto è perfetto: Corpi estranei coinvolge con forza pari a quella prodotta dal detestabile romanzo ad enigma, ma senza tradire una cornice profondamente realistica(5). Se, nel giallo classico, la disposizione ordinata di indizi "tra le pagine"–elemento, inutile a dirsi, fortemente irreale- richiamava l’animo enigmistico del lettore ad una distante partecipazione, nel romanzo di Paola Ronco, è il “non detto” a forzare il lavoro sull’intreccio, la ricostruzione della trama sommersa(6) in una narrazione che rinuncia ad ogni facile chiarimento, e abbandona ogni funzione consolatoria(7): i colpevoli non pagano. Così, il lavoro del lettore si fa metafora di quello sguardo “demistificante” che il poliziesco propone e deve proporre come compito irrinunciabilmente umano, e il romanzo, che di per se intrattiene egregiamente, assume in un certo senso una funzione pedagogica, sostenendo le ragioni del dubbio di fronte alla semplice, passiva, “ricezione della realtà”.



Paola Ronco è nata a Torino nel 1976. Vive a Genova. Corpi estranei, edito da Perdisa, è il suo primo romanzo.



(1)Paola Ronco, Corpi Estranei, Perdisa, Bologna 2009, p. 130.
(2)Studenti ed ex-studenti leggeranno con “piacere” (o con sdegno?) i brani relativi all’esame di filosofia morale sostenuto dalla giovane protagonista, e chissà che qualche torinese non riconosca il professore ritratto come un personaggio realmente esistito...
(3)Ivi, p. 72
(4)La reticenza (nel senso originario e menandriano di ellissi "emotivamente giustificata"), che in questo romanzo sembra assurgere al livello di schema, di strategia narrativa, non è una scelta gratuita, ma è una “trascrizione” di pensieri fedele ai limiti dei "personaggi pensanti", incapaci di “rimuovere” il passato, ma anche di affrontarlo per lasciarselo definitivamente alle spalle.
(5)Quello di Corpi estranei non è un improbabile universo parallelo, ma è quello tristemente reale del precariato e delle mistificazioni mediatiche, della morte della politica e della fine dell’impegno, dell’intolleranza, della sempre più anacronistica (ma paradossalmente sempre più radicata) xenofobia, e del G8 di Genova (evento al quale il romanzo sembra rimandare in maniera piuttosto esplicita).
(6) Per come procedono le cose, ci si aspetterebbe di riannodare le tre storie in un’unica serie di avvenimenti: si scopre, invece, procedendo nella lettura, che uno dei personaggi è un semplice “testimone indiretto”; l’asimmetria di ruoli, che in questo modo si viene a creare, non indebolisce, ma rafforza il romanzo aggiungendo “confusione” e contribuendo alla costruzione dell’effetto complessivo.
(7)L’unico spiraglio di luce all’orizzonte sembra essere rappresentato dall’idea dell’espatrio, che sfiora, come un’improvvisa illuminazione, uno dei personaggi.

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Wednesday, November 18, 2009

Al via il progetto "Rusty Dogs"



NonSoloNoir segnala a tutti l'uscita di Next door to Paradise, prima storia del blog "Rusty Dogs".
Il progetto Rusty Dogs prevede la pubblicazione di una serie di storie pulp, crime e noir a fumetti, sceneggiate dall'amico Emiliano Longobardi e illustrate da una quarantina di disegnatori scelti tra i migliori d'Italia.
Next Door To Paradise di Emiliano Longobardi e Andrea Del Campo è leggibile qui.

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Monday, November 16, 2009

Premio Scerbanenco 2009


Sono stati resi noti, alcuni giorni fa, i nomi dei 21 semifinalisti dell'edizione 2009 del prestigioso “Premio Letterario Giorgio Scerbanenco - Courmayeur Noir in Festival - La Stampa”.
I titoli in concorso sono:

Mattia Bernardo Bagnoli, Bologna permettendo (Fazi)
Ugo Barbàra, In terra consacrata (Piemme)
Elisabetta Bucciarelli, Io ti perdono (Kowalski)
Alessandro Cannevale, La foglia grigia (Einaudi)
Tommaso Capolicchio, L’infiltrato (Kowalski)
Donato Carrisi, Il suggeritore (Longanesi)
Alfio Caruso, Willi Melodia (Einaudi)
Alfredo Colitto, Cuore di ferro (Piemme)
Maurizio De Giovanni, Il posto di ognuno (Fandango)
Umberto Lenzi, Terrore ad Harlem (Coniglio editore)
Giulio Leoni, La regola delle ombre (Mondadori)
Franco Limardi, I cinquanta nomi del bianco (Marsilio)
Vincenzo Maimone, Un nuovo inizio (Sampognaro & Pupi)
Luca Poldelmengo, Odia il prossimo tuo (Kowalski)
Marco Polillo, Corpo morto (Piemme)
Francesco Recami, Il ragazzo che leggeva Maigret (Sellerio)
Simone Sarasso, Settanta (Marsilio)
Letizia Triches, Verde napoletano (Pendragon)
Valerio Varesi, Il paese di Saimir (Edizioni Ambiente Verdenero)
Marco Vichi, Morte a Firenze (Guanda)
Marco Videtta, Un bell’avvenire (E/O)

Nell'impossibilità di occuparmi di tutte le opere arrivate in semifinale (sfaccendato e lettore compulsivo va bene, ma a tutto c'è un limite...), nei prossimi giorni cercherò di intervistare i partecipanti, e di parlarvi dei romanzi che, per caso, per fortuna, o per segnalazione di amici ed esperti del settore, ho già avuto modo di leggere.
Per il momento, vi lascio con la recensione di "Terrore ad Harlem" di Umberto Lenzi, già apparsa su SugarPulp, in una versione leggermente modificata.



Umberto Lenzi: Terrore ad Harlem


Roma, dicembre 1942- gennaio 1943. Il regime sia avvia verso un rapido (mai abbastanza…) declino, ma, anche nella capitale, la popolazione è ancora stretta in una morsa di fame e miseria. Le razioni non bastano più; caffè “vero” e sigarette, lenitivi minimi, usuali, del malcontento popolare, sono un pallido ricordo, e, al mercato nero, i prezzi lievitano.

Bruno Astolfi, ex poliziotto espulso dai ranghi per motivi politici, si guadagna da vivere come investigatore privato, occupandosi di casi da nulla: ragazze “sedotte e abbandonate”, piccole ricerche, interventi “dissuasivi”… tutti lavori da quattro soldi; poi, il cinema torna a bussare alla sua porta. Già noto negli ambienti di Cinecittà per aver indagato, nel 1940, su un duplice tentativo di omicidio ai danni della diva Luisa Ferida, all’epoca impegnata nelle riprese del film La corona di ferro di Alessandro Blasetti, Astolfi viene richiamato agli studi come responsabile della sicurezza sul set di Harlem, del regista Carmine Gallone.

Un lavoro di routine? Forse no, perché le riprese del film, un mediocre oggetto di propaganda di regime, una storia pugilistica ambientata ad Harlem, prevedono la presenza sul set di un gran numero di comparse di colore, e il regista ha deciso di servirsi dei prigionieri di guerra americani… Ma non sono, o non dovrebbero essere, i “neri” a preoccupare Astolfi: nel bel mezzo delle riprese, il pugile italoamericano Tony Mauriello, consulente sportivo di Gallone, viene ritrovato impiccato. Le autorità non esitano ad archiviare il caso come suicidio, ma Astolfi non è tipo da soluzioni incerte e sbrigative, e la carta dei tarocchi ritrovata vicino al corpo senza vita del pugile, sembra ricollegare la sua morte all’omicidio della vecchia cartomante Giuditta Comolli. Il detective si lancia così in un’indagare che lo porterà, tra spettacoli di cabaret e pericolose incursioni in dubbi esercizi commerciali e palestre di pugilato, incontri politicamente “pericolosi” e minacce dell’OVRA, tormentate cene con l’amata Elena, scontri con la polizia, pedinamenti, dubbi e mezze verità, a far luce su un’intera catena di delitti, collegati dalla presenza, sulla scena del crimine, delle misteriose carte dei tarocchi…

Noir cinéphile dagli snodi classici, un po’ avventura di Toby Peters (ha ragione Gian Carlo De Cataldo a citarlo, ad uso e consumo dei neofiti, nella sua prefazione; ma d’altra parte, l’ombra del defunto Stuart Kaminsky –figura di riferimento per almeno un paio di generazioni di noiristi “informati sui fatti”- si addensa lunga sulla seconda avventura di Bruno Astolfi), e cugino alla lontana –merito ed effetto di ambientazione geografica e posizionamento cronologico-, del lucarelliano trittico del commissario De Luca, Terrore ad Harlem, di Umberto Lenzi, si allontana da opere come Assassinio sul sentiero dorato o Una pallottola per Erroll Flynn, per “serietà” e “durezza” dell’intreccio(1), e dai romanzi di Lucarelli per la già citata, assoluta dipendenza dalla dimensione cinematografica.

Rapido, avvincente, scandito, ritmato (d’altronde questa è una “seconda prova” per modo di dire: Umberto Lenzi ha sempre scritto per il cinema), solidamente costruito su rispettabili, inesausti, clichés del genere, popolato da personaggi mitici della cultura italiana del secondo dopoguerra(2), oltre che, ovviamente, da una miriade di attori realmente esistiti, Terrore ad Harlem, seguito “indipendente”(3) di Delitti a cinecittà, deve gran parte del suo “polveroso” fascino, alla perfetta ricostruzione ambientale, ai piacevoli tocchi vintage (o, con vocabolo dubbiamente più autarchico, “retrò”), che investono, qua e là, anche il livello lessicale, e conferiscono un forte senso di realtà ad un intreccio che miscela spunto reale e trama gialla, note storiche e varianti romanzesche.



(1) Niente rimane, ad Astolfi, dell’essere maldestro, dell’ingenuità di Peters, e se i due personaggi si prestano al confronto, è per la comune appartenenza ad universi narrativi fitti di riferimenti cinematografici; mondi nei quali, forse, nessuna storia sarebbe possibile se non al cinema e con il cinema, perché, fuori dalle sale e dagli studi, ci sono solo la noia, la miseria, le brutture della vita quotidiana…

(2) Le comparse “reali” di Terrore ad Harlem vanno da Aldo Fabrizi, posto al centro di un’indimenticabile sequenza di cabaret, ai fratelli De Filippo, passando per il giovane Indro Montanelli, appena “intravisto”, eppure in prima fila tra gli adiuvanti del protagonista…

(3) Astolfi ha modo di ricordare in più di un’occasione, nel corso del libro, la sua avventura a fianco di Luisa Ferida, e la situazione, forse anche per via della narrazione in prima persona, ri-emerge naturale, senza forzature, come in un suo rimuginare, che non sfiora mai, neppure lontanamente, il deprecabile livello della “comunicazione al lettore”.


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Monday, November 09, 2009

Arturo Buongiovanni: Intendo rispondere


Torre Annunziata, 1993. Ferdinando Cataldo è stato un uomo qualunque -un buon marito, un onesto lavoratore, il tranquillo proprietario di un’officina meccanica, uno in grado di tenersi fuori dai loschi traffici di tanti “amici”-, almeno fino al giorno in cui si è ritrovato a rispondere con le armi alle prepotenze e agli affronti di un vecchio conoscente, pronto ad “espropriare” l’attività di famiglia. E in un ambiente come il suo, in un tempo e in un luogo nei quali lo scavalcamento della sottile linea che divide la legalità dall’illegalità può essere segnato da una semplice coincidenza (l’incontro con il giorno libero di un funzionario di polizia, per esempio) e a tutti si offre, almeno in senso criminale, una “seconda opportunità”, certi fatti non passano inosservati. Così, il tranquillo Ferdinando, costretto alla latitanza da un’unica azione sconsiderata e quasi involontaria, si ritrova uomo di fiducia di Angelo Nuvoletta, uno dei più potenti boss della zona, affiliato direttamente a Cosa Nostra.
Promosso sul campo e protagonista di numerose azioni criminali, l'ex ragazzo per bene, ormai stimato killer, è costretto a fuggire a Torino; ma la vita nella città sconosciuta non ci mette molto a rivelarsi insidiosa: dopo un breve scontro con gli uomini di un clan rivale, Fernando si ritrova in carcere. Qui, per quanto pronto ad una lunga, silenziosa, reclusione, si convince- grazie all'appoggio della moglie Anita, e per via della terribile situazione familiare(1)- a collaborare alla battaglia condotta contro il clan Nuvoletta dal giovane magistrato D’Alterio(2) e dall’esperto commissario Auricchio.
La decisione, però, non è abbastanza: la strada per il tribunale è lunga, e, per i pentiti, c’è sempre il rischio di incappare in malaugurati “incidenti di percorso” e ripensamenti…

Opera di fortissima tensione civile, completamente ispirata ad una storia vera(3), profondamente morale e di grande valore letterario –pur tracciata con lo stile minimale tipico (si direbbe quasi “imposto”) dai canoni del genere, la ricostruzione di Arturo Buongiovanni funziona alla perfezione, innescando dolorosi meccanismi di immedesimazione-, Intendo rispondere asseconda la rinnovata tendenza(4) alla letteratura-verità, al romanzo-documento, affermatasi nella produzione italiana del dopo-Gomorra, tentando un’inedita, empatica, ricostruzione della condizione (psicologica, oltre che materiale) del “pentito”. E il romanzo, che non sottintende e non banalizza, ma “allude” alle cause del crimine, tirando in ballo il motivo sociale senza assolvere il protagonista dalle sue responsabilità personali, funziona alla perfezione, e finisce per trascinare il lettore in un mondo oscuro fatto di turbamenti, dubbi morali e paure ben più reali –quelle legate alla vita dei parenti rimasti “fuori"; un luogo nel quale la scelta della legalità è l'unica alternativa al dominio dell'inumana, violenta, pre-culturale casualità.

Classificatosi secondo all’ultima edizione del "Premio Azzeccagarbugli", Intendo rispondere, di Arturo Buongiovanni è edito da Donzelli.



(1) Il figlio Andrea, appena nato, ha gravi problemi di di salute, e le poche telefonate consentite ai detenuti comuni non sono neppure sufficienti per tenersi al corrente delle sue condizioni.
(2) Armando D’Alterio, oggi procuratore capo di Campobasso, è stato per anni membro della direzione distrettuale antimafia di Napoli; qui, si è occupato di procedimenti relativi ai clan Nuvoletta, Gionta e D'Alessandro.
(3) Arturo Buongiovanni, un tempo legale di Fernando Cataldo, sembra voler raccontare i fatti esattamente come li ha conosciuti, senza abbellimenti, abbandonando l'evocazione compiaciuta della violenza tipica di tante narrazioni costruite intorno a figure di fuorilegge, e limitando al minimo gli espedienti narrativi. Il risultato? Esattamente quello sperato: la fascinazione per la parentesi criminale del protagonista (del resto mantenuta, per quanto possibile, in ellissi) risulta totalmente azzerata. I veri eroi di Intendo rispondere sono gli uomini che scelgono la legge; tutti, pentiti inclusi.
(4) Questa tendenza è perfettamente testimoniata dai racconti apparsi su «Nuovi Argomenti» scelti per il volume antologico Aa. Vv., A occhi aperti. Le nuove voci della narrativa italiana raccontano la realtà, Mondadori, Milano 2008.

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