Premio Scerbanenco 2009
I titoli in concorso sono:
Mattia Bernardo Bagnoli, Bologna permettendo (Fazi)
Ugo Barbàra, In terra consacrata (Piemme)
Elisabetta Bucciarelli, Io ti perdono (Kowalski)
Alessandro Cannevale, La foglia grigia (Einaudi)
Tommaso Capolicchio, L’infiltrato (Kowalski)
Donato Carrisi, Il suggeritore (Longanesi)
Alfio Caruso, Willi Melodia (Einaudi)
Alfredo Colitto, Cuore di ferro (Piemme)
Maurizio De Giovanni, Il posto di ognuno (Fandango)
Umberto Lenzi, Terrore ad Harlem (Coniglio editore)
Giulio Leoni, La regola delle ombre (Mondadori)
Franco Limardi, I cinquanta nomi del bianco (Marsilio)
Vincenzo Maimone, Un nuovo inizio (Sampognaro & Pupi)
Luca Poldelmengo, Odia il prossimo tuo (Kowalski)
Marco Polillo, Corpo morto (Piemme)
Francesco Recami, Il ragazzo che leggeva Maigret (Sellerio)
Simone Sarasso, Settanta (Marsilio)
Letizia Triches, Verde napoletano (Pendragon)
Valerio Varesi, Il paese di Saimir (Edizioni Ambiente Verdenero)
Marco Vichi, Morte a Firenze (Guanda)
Marco Videtta, Un bell’avvenire (E/O)
Nell'impossibilità di occuparmi di tutte le opere arrivate in semifinale (sfaccendato e lettore compulsivo va bene, ma a tutto c'è un limite...), nei prossimi giorni cercherò di intervistare i partecipanti, e di parlarvi dei romanzi che, per caso, per fortuna, o per segnalazione di amici ed esperti del settore, ho già avuto modo di leggere.
Per il momento, vi lascio con la recensione di "Terrore ad Harlem" di Umberto Lenzi, già apparsa su SugarPulp, in una versione leggermente modificata.
Umberto Lenzi: Terrore ad Harlem
Roma, dicembre 1942- gennaio 1943. Il regime sia avvia verso un rapido (mai abbastanza…) declino, ma, anche nella capitale, la popolazione è ancora stretta in una morsa di fame e miseria. Le razioni non bastano più; caffè “vero” e sigarette, lenitivi minimi, usuali, del malcontento popolare, sono un pallido ricordo, e, al mercato nero, i prezzi lievitano.
Bruno Astolfi, ex poliziotto espulso dai ranghi per motivi politici, si guadagna da vivere come investigatore privato, occupandosi di casi da nulla: ragazze “sedotte e abbandonate”, piccole ricerche, interventi “dissuasivi”… tutti lavori da quattro soldi; poi, il cinema torna a bussare alla sua porta. Già noto negli ambienti di Cinecittà per aver indagato, nel 1940, su un duplice tentativo di omicidio ai danni della diva Luisa Ferida, all’epoca impegnata nelle riprese del film La corona di ferro di Alessandro Blasetti, Astolfi viene richiamato agli studi come responsabile della sicurezza sul set di Harlem, del regista Carmine Gallone.
Un lavoro di routine? Forse no, perché le riprese del film, un mediocre oggetto di propaganda di regime, una storia pugilistica ambientata ad Harlem, prevedono la presenza sul set di un gran numero di comparse di colore, e il regista ha deciso di servirsi dei prigionieri di guerra americani… Ma non sono, o non dovrebbero essere, i “neri” a preoccupare Astolfi: nel bel mezzo delle riprese, il pugile italoamericano Tony Mauriello, consulente sportivo di Gallone, viene ritrovato impiccato. Le autorità non esitano ad archiviare il caso come suicidio, ma Astolfi non è tipo da soluzioni incerte e sbrigative, e la carta dei tarocchi ritrovata vicino al corpo senza vita del pugile, sembra ricollegare la sua morte all’omicidio della vecchia cartomante Giuditta Comolli. Il detective si lancia così in un’indagare che lo porterà, tra spettacoli di cabaret e pericolose incursioni in dubbi esercizi commerciali e palestre di pugilato, incontri politicamente “pericolosi” e minacce dell’OVRA, tormentate cene con l’amata Elena, scontri con la polizia, pedinamenti, dubbi e mezze verità, a far luce su un’intera catena di delitti, collegati dalla presenza, sulla scena del crimine, delle misteriose carte dei tarocchi…
Noir cinéphile dagli snodi classici, un po’ avventura di Toby Peters (ha ragione Gian Carlo De Cataldo a citarlo, ad uso e consumo dei neofiti, nella sua prefazione; ma d’altra parte, l’ombra del defunto Stuart Kaminsky –figura di riferimento per almeno un paio di generazioni di noiristi “informati sui fatti”- si addensa lunga sulla seconda avventura di Bruno Astolfi), e cugino alla lontana –merito ed effetto di ambientazione geografica e posizionamento cronologico-, del lucarelliano trittico del commissario De Luca, Terrore ad Harlem, di Umberto Lenzi, si allontana da opere come Assassinio sul sentiero dorato o Una pallottola per Erroll Flynn, per “serietà” e “durezza” dell’intreccio(1), e dai romanzi di Lucarelli per la già citata, assoluta dipendenza dalla dimensione cinematografica.
Rapido, avvincente, scandito, ritmato (d’altronde questa è una “seconda prova” per modo di dire: Umberto Lenzi ha sempre scritto per il cinema), solidamente costruito su rispettabili, inesausti, clichés del genere, popolato da personaggi mitici della cultura italiana del secondo dopoguerra(2), oltre che, ovviamente, da una miriade di attori realmente esistiti, Terrore ad Harlem, seguito “indipendente”(3) di Delitti a cinecittà, deve gran parte del suo “polveroso” fascino, alla perfetta ricostruzione ambientale, ai piacevoli tocchi vintage (o, con vocabolo dubbiamente più autarchico, “retrò”), che investono, qua e là, anche il livello lessicale, e conferiscono un forte senso di realtà ad un intreccio che miscela spunto reale e trama gialla, note storiche e varianti romanzesche.
(1) Niente rimane, ad Astolfi, dell’essere maldestro, dell’ingenuità di Peters, e se i due personaggi si prestano al confronto, è per la comune appartenenza ad universi narrativi fitti di riferimenti cinematografici; mondi nei quali, forse, nessuna storia sarebbe possibile se non al cinema e con il cinema, perché, fuori dalle sale e dagli studi, ci sono solo la noia, la miseria, le brutture della vita quotidiana…
(2) Le comparse “reali” di Terrore ad Harlem vanno da Aldo Fabrizi, posto al centro di un’indimenticabile sequenza di cabaret, ai fratelli De Filippo, passando per il giovane Indro Montanelli, appena “intravisto”, eppure in prima fila tra gli adiuvanti del protagonista…
(3) Astolfi ha modo di ricordare in più di un’occasione, nel corso del libro, la sua avventura a fianco di Luisa Ferida, e la situazione, forse anche per via della narrazione in prima persona, ri-emerge naturale, senza forzature, come in un suo rimuginare, che non sfiora mai, neppure lontanamente, il deprecabile livello della “comunicazione al lettore”.
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