Hugues Pagan: Quelli che restano
“Secondo la leggenda, Lester Young, alla fine della vita, parlava solo con i morti. Si era inventato un linguaggio tutto suo -o tutto loro… E così aveva capito tutto, anche le cose più sgradevoli, quelle che uno preferirebbe non aver mai saputo. La leggenda aggiunge che un giorno, colui che i suoi pari riconoscevano come il più grande sax tenore della sua generazione, colui che tutti chiamavano ‘Presidente’, se ne andò da solo, senza lasciarsi nulla alle spalle, a parte poche frasi teneramente pudiche, contenuto tragico e acume disilluso, da cui traspariva la splendida e pacata amarezza che è la tremenda prerogativa di quelli che, fin dall’inizio, hanno capito che non ne avrebbero fatta molta, di strada…”(1)
Parigi, primi anni novanta. Chiusi (malamente) tutti i rapporti con l’“Usine”(2), il “vecchio” Chess(3), ex sbirro tutto d’un pezzo, passa la vita tra bottiglie di whisky, fumo di sigaretta e polverosi vinili jazz, nell’attesa che il male che da tempo gli trapana i polmoni(4) se lo porti via. Quando l’antillese Fortune tenta di assumerlo per indagare sulla morte dell’avvenente prostituta Velma, fatta fuori sul “posto di lavoro”, in avenue de Gravelle, in quello che, se non fosse per l’archiviazione troppo rapida del caso, potrebbe sembrare il banale e cruento attacco di un agguerrito concorrente, il detective decide di tenersi fuori dalle indagini; poi, le strane incongruenze emerse nel corso di un primo, rapido, giro tra gli informatori e il ricordo (troppo vivido) degli occhi della vittima -grandi occhi “malva e dolci, con un alone ardesia attorno all’iride”(5)- lo costringono a tornare sui suoi passi e a ributtarsi, a bordo della sua vecchia Pontiac Firebird, per le strade di una metropoli notturna e insidiosa. Ma la decisione di indagare gli costerà cara: oltre a portare in luce la sporcizia e la corruzione del dipartimento di polizia e della divisione della quale, un tempo, ha fatto parte, Chess si vedrà sfuggire tra le mani -impotente come tutti “quelli che restano”- la possibilità di un ultimo, disperato amore…
Secco, crudo, deprimente o meglio sconsolante (nel senso positivo del termine), come possono esserlo solo i romanzi che pretendono di dire “tutta la verità”, in barba alle esigenze di mercato e in spregio alle aspettative dei lettori “medi”, Quelli che restano, è una di quelle rare opere in grado di portare sulla scena un personaggio “duro e puro” –un incorruttibile sognatore rivestito alla meglio dei panni del cinico- senza dissolvere la spessa cappa di fumo e nebbia che avvolge una società realisticamente dipinta come un’unica, grande macchia grigia(6), e senza che il sistema cominci a stridere e scricchiolare.
Spesso paragonato a Jean-Patrick Manchette (probabilmente per schieramento politico o in quanto “figura principale” di un determinato periodo del noir francese, come l’autore di Piccolo Blues lo era stato nel decennio precedente), Pagan crea il suo romanzo con modi diametralmente opposti(7) a quelli del “behaviorismo manchettiano”, puntando su un’interiorità manifesta nella narrazione in forma quasi monologica: Quelli che restano è, infatti, una racconto in prima persona che spesso si apre alle divagazioni del protagonista-narratore; è una riflessione personale, dolente, giustamente sconnessa, talvolta reticente (ma in funzione realistica e mimetica, e non per creare inutili, decorativi, effetti sorpresa), fitta di riferimenti metatestuali(8), inframmezzata da brevi (ma essenziali), rapidissime, sequenze d’azione, e chiuso da un'imprevista coda metanarrativa.
Scritto nel 1993, come seguito dell'altrettanto riuscito Dead End Blues(9), Quelli che restano, da tempo quasi introvabile in Italia, viene oggi riproposto in edizione tascabile da Meridiano Zero.
(1) Hugues Pagan, Quelli che restano, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 7 (traduzione di Alberto Pezzotta).
(2)Il termine traduce perfettamente quello di “Factory” in uso nel noto ciclo di romanzi di Derek Raymond; questa convergenza -probabilmente incidentale- è, comunque, solo la prima e la più superficiale di una serie di ovvie analogie. Si noti, per esempio, il rigorismo morale, il carattere incorruttibile e granitico e la disposizione empatica nei confronti delle vittime dei due protagonisti, oltre che l'impegno in vista della soluzione di casi "lontani dai riflettori" e generalmente considerati di scarso interesse.
(3) Il soprannome rimanda alla famosa etichetta discografica fondata nel 1950 da Leonard Chess. La storia della Chess e del suo fondatore è stata recentemente ricostruita, in maniera romanzata ma credibile, nel film Cadillac Records, scritto e diretto da Darnell Martin.
(4) La malattia, pur mortale, spesso si manifesta al protagonista sotto forma di un “semplice”, fastidioso, mal di schiena, o poco più, come a volergli impedire una delle ultime forme di eroismo che gli siano consentite: la stoica resistenza al dolore.
(5)Ivi, pp. 35-36.
(6)Lo scioglimento del tradizionale, manicheo, dualismo buoni-cattivi, ormai dato per scontato, e tenuto per punto fermo del genere, è in realtà ancora sottoposto a periodiche crisi e improvvise ricadute: si pensi, per esempio, alla mini-serie televisiva Flics e ai film di Olivier Marchal, che, pur essendo, in media, riuscitissimi, ricreano, qua e là, rigide opposizioni dal tono ingenuamente classico.
(7)O almeno all’opposto del Manchette più noto ed influente, quello dei romanzi narrati in terza persona.
(8)Particolarmente evidenti, come sempre nei romanzi di Pagan, quelli alla cultura americana, dalla musica (principalmente jazz, ma anche blues e rock & roll anni '50) al gusto quasi pop per determinati oggetti (spesso, ma non necessariamente “vintage”), passando per la letteratura (in questo caso non solo di genere: a pagina 201 si legge, con chiaro riferimento a Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald “Anche lui credeva alla piccola luce verde dall’altro lato della baia”).
(9)Da Dead end Blues, sempre edito da Meridiano Zero, è stato recentemente tratto il film Diamante 13, scritto e diretto da Gilles Béhat (ma all'adattamento hanno partecipato anche Olivier Marchal e lo stesso Hugues Pagan), e interpretato da Gérard Depardieu, Olivier Marchal e Asia Argento.
Parigi, primi anni novanta. Chiusi (malamente) tutti i rapporti con l’“Usine”(2), il “vecchio” Chess(3), ex sbirro tutto d’un pezzo, passa la vita tra bottiglie di whisky, fumo di sigaretta e polverosi vinili jazz, nell’attesa che il male che da tempo gli trapana i polmoni(4) se lo porti via. Quando l’antillese Fortune tenta di assumerlo per indagare sulla morte dell’avvenente prostituta Velma, fatta fuori sul “posto di lavoro”, in avenue de Gravelle, in quello che, se non fosse per l’archiviazione troppo rapida del caso, potrebbe sembrare il banale e cruento attacco di un agguerrito concorrente, il detective decide di tenersi fuori dalle indagini; poi, le strane incongruenze emerse nel corso di un primo, rapido, giro tra gli informatori e il ricordo (troppo vivido) degli occhi della vittima -grandi occhi “malva e dolci, con un alone ardesia attorno all’iride”(5)- lo costringono a tornare sui suoi passi e a ributtarsi, a bordo della sua vecchia Pontiac Firebird, per le strade di una metropoli notturna e insidiosa. Ma la decisione di indagare gli costerà cara: oltre a portare in luce la sporcizia e la corruzione del dipartimento di polizia e della divisione della quale, un tempo, ha fatto parte, Chess si vedrà sfuggire tra le mani -impotente come tutti “quelli che restano”- la possibilità di un ultimo, disperato amore…
Secco, crudo, deprimente o meglio sconsolante (nel senso positivo del termine), come possono esserlo solo i romanzi che pretendono di dire “tutta la verità”, in barba alle esigenze di mercato e in spregio alle aspettative dei lettori “medi”, Quelli che restano, è una di quelle rare opere in grado di portare sulla scena un personaggio “duro e puro” –un incorruttibile sognatore rivestito alla meglio dei panni del cinico- senza dissolvere la spessa cappa di fumo e nebbia che avvolge una società realisticamente dipinta come un’unica, grande macchia grigia(6), e senza che il sistema cominci a stridere e scricchiolare.
Spesso paragonato a Jean-Patrick Manchette (probabilmente per schieramento politico o in quanto “figura principale” di un determinato periodo del noir francese, come l’autore di Piccolo Blues lo era stato nel decennio precedente), Pagan crea il suo romanzo con modi diametralmente opposti(7) a quelli del “behaviorismo manchettiano”, puntando su un’interiorità manifesta nella narrazione in forma quasi monologica: Quelli che restano è, infatti, una racconto in prima persona che spesso si apre alle divagazioni del protagonista-narratore; è una riflessione personale, dolente, giustamente sconnessa, talvolta reticente (ma in funzione realistica e mimetica, e non per creare inutili, decorativi, effetti sorpresa), fitta di riferimenti metatestuali(8), inframmezzata da brevi (ma essenziali), rapidissime, sequenze d’azione, e chiuso da un'imprevista coda metanarrativa.
Scritto nel 1993, come seguito dell'altrettanto riuscito Dead End Blues(9), Quelli che restano, da tempo quasi introvabile in Italia, viene oggi riproposto in edizione tascabile da Meridiano Zero.
(1) Hugues Pagan, Quelli che restano, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 7 (traduzione di Alberto Pezzotta).
(2)Il termine traduce perfettamente quello di “Factory” in uso nel noto ciclo di romanzi di Derek Raymond; questa convergenza -probabilmente incidentale- è, comunque, solo la prima e la più superficiale di una serie di ovvie analogie. Si noti, per esempio, il rigorismo morale, il carattere incorruttibile e granitico e la disposizione empatica nei confronti delle vittime dei due protagonisti, oltre che l'impegno in vista della soluzione di casi "lontani dai riflettori" e generalmente considerati di scarso interesse.
(3) Il soprannome rimanda alla famosa etichetta discografica fondata nel 1950 da Leonard Chess. La storia della Chess e del suo fondatore è stata recentemente ricostruita, in maniera romanzata ma credibile, nel film Cadillac Records, scritto e diretto da Darnell Martin.
(4) La malattia, pur mortale, spesso si manifesta al protagonista sotto forma di un “semplice”, fastidioso, mal di schiena, o poco più, come a volergli impedire una delle ultime forme di eroismo che gli siano consentite: la stoica resistenza al dolore.
(5)Ivi, pp. 35-36.
(6)Lo scioglimento del tradizionale, manicheo, dualismo buoni-cattivi, ormai dato per scontato, e tenuto per punto fermo del genere, è in realtà ancora sottoposto a periodiche crisi e improvvise ricadute: si pensi, per esempio, alla mini-serie televisiva Flics e ai film di Olivier Marchal, che, pur essendo, in media, riuscitissimi, ricreano, qua e là, rigide opposizioni dal tono ingenuamente classico.
(7)O almeno all’opposto del Manchette più noto ed influente, quello dei romanzi narrati in terza persona.
(8)Particolarmente evidenti, come sempre nei romanzi di Pagan, quelli alla cultura americana, dalla musica (principalmente jazz, ma anche blues e rock & roll anni '50) al gusto quasi pop per determinati oggetti (spesso, ma non necessariamente “vintage”), passando per la letteratura (in questo caso non solo di genere: a pagina 201 si legge, con chiaro riferimento a Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald “Anche lui credeva alla piccola luce verde dall’altro lato della baia”).
(9)Da Dead end Blues, sempre edito da Meridiano Zero, è stato recentemente tratto il film Diamante 13, scritto e diretto da Gilles Béhat (ma all'adattamento hanno partecipato anche Olivier Marchal e lo stesso Hugues Pagan), e interpretato da Gérard Depardieu, Olivier Marchal e Asia Argento.
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