Thursday, April 26, 2007

C- Robert De Niro: The Good Sheperd (L’ombra del potere)


Edward Bell Wilson è un brillante studente; figlio di un ex militare (suicidatosi per motivi apparentemente inspiegabili nel ‘29) viene contattato dall’FBI per indagare su un professore di poesia filonazista arrivato, non si sa come, all’università di Yale.
Portata a termine con successo l’operazione, il giovane Wilson entra a far parte degli skull and bones (curiosa loggia massonica con base a Yale nella quale si trovano politici, senatori, militari di alto grado…(1)); proprio durante una festa degli Skull and Bones Edward viene contattato dal generale Sullivan (Robert De Niro purtroppo poco presente sullo schermo) che lo invita a far parte dell’ OSS (il famoso Office of Secret Service creato da Roosvelt nel 1942) inviandolo in Europa.
Wilson, sposato di recente passerà il periodo della guerra a Londra per poi trasferirsi a Berlino, il tutto senza mai tornare dalla moglie, e dal figlio ancora sconosciuto.
Rispedito negli Stati Uniti, l’agente, ormai più che trentenne, tenta con poche speranze di recuperare i cocci della sua vita familiare, intanto, la CIA è coinvolta in operazioni sempre più rischiose, fino al doloroso scacco della Baia dei Porci…

A 14 anni dall’uscita di Bronx (“A bronx tale”, 1993) Robert De Niro si lancia nella sua seconda prova registica con “The good Sheperd, L’ombra del potere”; per l’operazione sceglie un cast d’eccezione, portando sugli schermi, tra gli altri, Matt Damon(in realtà secondo le dichiarazioni del regista la sua parte doveva essere affidata a Leonardo Di Caprio), Angelina Jolie, Alec Baldwin, Joe Pesci, William Hurt ecc.
Sceneggiato da Eric Roth (già autore di Munich, Forrest Gump, The Insider…), che recupera per l’occasione tematiche alla Le Carré, The good Sheperd rappresenta in maniera fragmentaria e carica di Flash-backs, una porzione di vita dell’agente Edward Bell Wilson, testimone di quegli anni cruciali che vanno dalla nascita dell’ OSS a quella della CIA, dall’ entrata nella guerra fredda al “problema” Castro.

Qualcuno ha lamentato una regia piatta e certamente non illuminata,ma, certo, si può dire che The Good Sheperd costituisca un buon esempio di cinema “classico”(in realtà si intravede l’ombra di Scorsese, d’altronde dominante anche nel precedente “Bronx”, un po’ in tutto, a partire dalla fotografia…) stranamente prodotto nel 2007 a beneficio di spettatori giustamente tediati per l’eccessiva offerta di film post-moderni così pieni di brutture fotografiche e/o montaggistiche.
Il racconto (piuttosto schietto e libero da luoghi comuni, se si considera che il film è prodotto negli U.S.A.) è decisamente credibile, e, a chi lamenti qua e là delle inesattezze, è forse opportuno far notare che materia del racconto non è tanto la storia mondiale, quanto quella personale del lugubre “impiegatuccio” Wilson (assunto a simbolo e rappresentate unico della condizione di vita dell’agente segreto) che, disposto a tutto per aiutare il suo paese, finisce con il perdere se stesso (d’altronde era stato avvisato dal Dr. Fredericks il quale, giusto prima di morire gli consiglia di “trovarsi un’altra occupazione prima di perdere l’anima”…) e i propri affetti.
Senza dubbio uno dei film più interessanti di questa prima parte del 2007.


(1) Sul tema si veda, ad esempio, http://it.wikipedia.org/wiki/Skull_and_Bones

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Wednesday, April 25, 2007

L- Erskine Caldwell: Il predicatore vagante

(Foto tratta da "La morte corre sul fiume" di C. Laughton)

Venne a fermarsi di botto presso la magnolia, uscendo dalla strada, una macchina coperta di fango e scassata quanto mai.”(1)

E’ mercoledì mattina; un uomo misterioso arriva alla fattoria di Clay Horey (nei pressi di McGuffin, Georgia). E’ Semon Dye, strano predicatore itinerante che non porta con se’ la bibbia, ma una pistola, e, nella tasca della giacca, una coppia di dadi.
Deciso ad attendere la domenica per predicare nella scuola cittadina (non esistono chiese a McGuffin), portando così la salvezza alla popolazione, il pastore si stabilisce (senza chiedere il permesso, s’intende), nella fattoria del pigro e indolente Horey; nei cinque giorni della sua permanenza riuscirà a dimostrare un certo amore per le donne, l’alcol, e il gioco d’azzardo(oltre che una certa facilità a premere il grilletto della sua pistola).

Scritto nel 1935, ad appena due anni da “il piccolo campo” (forse il capolavoro assoluto della produzione caldwelliana), “Il predicatore vagante” è un ottimo esempio della narrativa del grande scrittore; in esso si respira la stessa aria decadente che caratterizza la “produzione maggiore” di Caldwell, quella animalità dei rapporti umani, quell’abisso di sensualità (in negativo), quelle passioni morbose, che non sembra lecito giustificare (e neppure tentare di spiegare) facendo ricorso ai motivi dell’ignoranza e della vita in campagna (2).
La figura del predicatore itinerante immorale ed approfittatore (evidentemente personaggio tutt’altro che inverosimile, visto che lo si ritrova, caratterizzato in maniera non molto differente nell’adattamento cinematografico del notissimo “la morte corre sul fiume”, solo per fare un esempio) offre lo spunto per un bell’ affresco della religione nelle zone rurali degli stati del sud; è una religione in bilico tra la spudorata superstizione, la palese ipocrisia, i tentativi veri o falsi di auto-convincimento e la conversione sentita o simulata, quella che viene fuori dall’opera di Caldwell (3).
Tra i molti momenti indimenticabili di quest’opera ricordiamo almeno la descrizione della “partita a dadi” e quella meravigliosa e quasi surreale della predicazione serale nella scuola.

“Il predicatore vagante”, attualmente non disponibile in Italia era edito da Bompiani.

(1)E. Caldwell, il predicatore vagante, pg. 5, bompiani, 1981

(2)In Italia una via simile è stata intrapresa da Beppe Fenoglio, che, in chiusura alla sua raccolta “Un giorno di fuoco”, parlando per bocca di una donna, giustifica con l’ignoranza i fatti violenti descritti ne “i racconti del parentado”;d’altra parte i racconti inscenano il confronto tra la moralità “regolare” del ragazzo di città (il Fenoglio stesso) e i modelli etici a “tradizione orale” dei campagnoli, non è dunque impensabile che queste affermazioni siano un tentativo di giustificazione operato dalla donna ad uso del giovane (piuttosto che un misero e fallimentare tentativo dell’autore).

(3)In questo caso la prospettiva adotta da Caldwell è strettamente irrazionalistica, sembra che, nonostante tutte le brutture, la religione riesca a svolgere una funzione positiva… (Forse, nonostante la critica non ne parli, è lecito ipotizzare per Caldwell, come si fa per Faulkner, l’influenza di “Il ramo d’oro” di Frazer ).

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Tuesday, April 24, 2007

C-James Foley: Perfect Stranger

Rowena (la bella Halle Berry, che dava miglior mostra di se nel divertente “Cat Woman”) è una giornalista che si occupa di servizi scandalistici per il Chicago Tribune; lei ed il suo socio Miles (Giovanni Ribisi) sono disposti a tutto per i loro servizi, che vengono poi pubblicati sotto lo pseudonimo di “David Shane”.
Il film si apre con una nota critica verso la censura editoriale (ma lo spettatore non deve aspettarsi troppo, non si tratta che di un pretesto per dare l’avvio all’intreccio); si assiste senza emozione all’ira di Rowena che lascia il lavoro al giornale in segno di protesta, solo per mettersi ad indagare per conto suo seguendo una traccia indicatale dall’amica Grace (Nicki Aycox). Secondo la bionda Grace il noto pubblicitario Harrison Hill (Bruce Willis, unico attore veramente convincente in un cast mediocre) sarebbe stato coinvolto in una serie di relazioni extraconiugali con varie segretarie, tutte abilmente messe a tacere.
Quando Grace viene trovata morta, Rowena non ha altra scelta che infiltrarsi nella compagnia di Hills, ma forse le cose non stanno esattamente come ci si aspetta…

Primo film girato a Ground Zero, “Perfect stranger” è una pellicola mediocre, che poco convince per una serie di motivi che vanno dalla scarsa ispirazione del regista, allo scarso impegno degli attori, passando per un soggetto ed una sceneggiatura non eccelsi, tanto che, per sciogliere il mistero che con lo scorrere del film diventa sempre più intricato (tanto che lo stesso regista ha filmato tre diversi finali, con tre diversi assassini…), c’è addirittura bisogno di riproporre dei dialoghi già visti, ma modificandone il contenuto (certo, forse questi dialoghi si modificano, nella mente degli interlocutori originari, alla luce delle nuove informazioni ottenute, e dunque lo fanno anche sullo schermo, e lo spettatore più attento può cogliere quella differenza nell’uso di un vocabolo che indica “chiaramente” l’assassino, ma questa ci sembra una soluzione narrativa troppo geniale, se accostata alla mediocrità del film…).
Un film che non vale il prezzo del biglietto, e, tanto meno, quello della produzione.

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Saturday, April 14, 2007

L- Nick Tosches: Sonny Liston e il diavolo

Poche figure, nella storia dello sport americano hanno avuto una risonanza pari a quella di Sonny Liston, e questo non per un incredibile popolarità, ma anzi per un’ impopolarità quasi insopportabile.La presenza di Liston, tanto ingombrante e negativa da eccedere l’amore degli americani per il gesto sportivo, l’amore per i grandi campioni, evocava l’immagine stessa di una brutalità naturale, incivile, e dunque insopportabile.Mal sopportato dal pubblico, temuto dai pugili della sua categoria, stimato forse solo dall’amico Foneda Cox ed un pugno di altri uomini, Liston è stato uno dei più grandi campioni di Boxe prima della comparsa del giovane Ali (piuttosto dubbio, anzi, l'esito del famoso incontro "Liston-Ali", a quanto ci dice l'autore assolutamente truccato); Nick Tosches, scrittore mediocre e portato a divagare dilungandosi su particolari inutili e/o difficilmente sopportabili, ripercorre vita e carriera di Liston scegliendo di mimare (ma con poca efficacia e ottenendo un effetto assolutamente artefatto) il linguaggio dei bassifondi.

Poco convincono i commenti personali ed i capitoli riflessivi (si pensi all’insopportabile primo capitolo diviso tra osservazioni quasi razziste e leggende africane ed altri elementi folcloristici insopportabilmente riportati).
Assolutamente troppo estesi e dettagliati i capitoli riguardanti i rapporti tra la mafia ed il mondo del pugilato (amche se di per se' molto interessanti), che tendono ad estenuare il lettore consegnando nelle sue mani una serie di dati e nomi ecc.(e d’altra parte è proprio questo il mestiere di Tosches, già autore della biografia “Dino” deidcata a Dean Martin e sempre documentata oltre i limiti di sopportazione del lettore).
Ma la biografia, per quanto romanzata (e se si vuole anche mal scritta), ha il merito di riconsegnarci un immagine corretta di Liston: Un uomo duro, forse il più forte, “nato sotto una cattiva stella”, come recita il noto blues, uno capace solo di stare sul ring, buono solo con i preti ed i ragazzini.

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L- James Grady: I sei Giorni del Condor

Metà anni ’70; l’agente Malcom lavora per una sezione distaccata della CIA incaricata del controllo delle “fonti aperte” (libri, fumetti, giornali, telegiornali…) per individuare eventuali messaggi cifrati trasmessi dallo spionaggio di altri paesi.Un giorno, uscito per una commissione, torna in ufficio e trova tutti i suoi compagni brutalmente assassinati.

Cosa è successo? Chi può aver sterminato una mezza dozzina di agenti di poco conto, e perché?
Malcom (nome in codice “condor”) si mette in contatto con l’organizzazione, ma, scoperta la presenza di agenti corrotti sarà costretto a cavarsela da solo…

Il problema di fondo di tanti romanzi di spionaggio è quello di voler sostenere, sia pure in maniera romanzata, assurde teorie del complotto (che il mondo sia in mano ad una serie di gigantesche ma semi-invisibili organizzazioni legate tra loro da rapporti misteriosi è un dato di fatto, ed è fin troppo noto, ma forse, oltre questi banali assunti, non è il caso di spingersi); in “i sei giorni del condor” questo non accade, il movente, credibilissimo è quello di sempre: i dollari.
L’intreccio ben costruito (in alcuni punti quasi un meccanismo ad orologeria) controbilancia alcune carenze stilistiche (la parte iniziale è abbastanza noiosa da scoraggiare i meno motivati, le due o tre scene di sesso sono piuttosto dozzinali…) tutto sommato insufficienti a rovinare un romanzo decisamente gradevole.
La psicologia dei personaggi è piatta, e poco sviluppata, ma infondo così si addice ad un romanzo che fa della focalizzazione esterna (genettianamente parlando) uno dei suoi punti di forza.
Un romanzo discreto, scritto da un autore non privo di mestiere (certo non ci si spingerà a dire con Grisham che Grady sia un “maestro dell’intreccio”…).

“I sei giorni del Condor” (per l’occasione ridotto a “I tre giorni del condor”) è stato portato sugli schermi nel 1975 da Sidney Pollack, ed interpretato da Robert Redford e Faye Dunaway.
I sei giorni del condor è edito da Marco Tropea editore, serie “net”.

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