James Lee Burke: La ballata di Jolie Blon
«Sono cresciuto negli anni Quaranta, a New Iberia, giù lungo la costa del Golfo, e non ho mai messo in dubbio il modo in cui funzionava il mondo. All’alba, le case coloniali della East Main emergevano dalla nebbia, i portici ornati da colonne e i vialetti dei giardini e le verande umide di rugiada, i camini e i tetti d’ardesia segnati dolcemente dai rami delle querce che come un arco coprivano tutta la strada. Le carcasse delle navi affondate della Marina americana giacevano sui fianchi a Pearl Harbor e le stelle di servizio erano appese alle finestre di tutta New Iberia. Ma sulla East Main, nel chiarore illusorio dell’alba, l’aria era carica del profumo dei fiori notturni e dei licheni che crescevano sulla pietra umida, e dell’odore fecondo del bayou Teche, e anche se una stella di servizio d’oro era stata appesa alla finestra di una grande casa a indicare la morte di un membro della famiglia nell’esercito, l’anno avrebbe potuto benissimo essere il 1861 invece del 1942.» (1)
Comincia così La ballata di Jolie Blon, opera tra le più riuscite di James Lee Burke: con l’evocazione di un passato che sembra da tempo dimenticato. Ma la descrizione della Lousiana degli anni ’40, apparentemente paragonabile- avvolta com’è dal comprensibile alone mitico di ogni luogo della memoria- alla terra verde e rigogliosa del 1860, abitata da “bravi cristiani”, patrioti e gentiluomini del sud, non dura molto: concluso un antefatto che poi si rivela tale solo da un punto di vista temporale, perché è quasi scollegato dal seguito, l’autore passa alla “nuova” New Iberia, dipinta in tutta la sua miseria attraverso l’evocazione di un paio di omicidi, quello di una sedicenne di buona famiglia, legata sotto un albero, violentata e uccisa a colpi di fucile, e quello di una prostituta tossicodipendente. La falsa opposizione tra paradisiaco passato e decaduto presente, creata dai capitoli iniziali, ha vita breve: per risolvere il caso, Robicheaux dovrà distogliere lo sguardo dal giovane, dolente bluesman Tee Bobby Hulin, presunto assassino delle due donne, per guardare indietro; e, nel farlo, non solo rivaluterà (svaluterà?) il passato, sistemando vecchi ricordi irrisolti e afferrando meccanismi vigenti (ma per lui incomprensibili) all’epoca della sua infanzia, ma si troverà ad affrontare un temibile superstite: il vecchio schiavista Legion(2) Guidry, emanazione prima del "male assoluto".
E mentre lo scontro si fa duro, e gli assalti del diabolico Guidry diventano diretti e violenti, Robicheaux deve tentare di mantenere sotto controllo una banda di mafiosi italiani imparentati con la prostituta uccisa, accorsi in città per indagare “in proprio”...
Il romanzo procede inesorabile, incidente dopo incidente, verso un “biblico” finale, e, intanto, quello che balza fuori dalle pagine, nel confronto serrato tra ferite passate e cicatrici presenti, tra antiche brutture e moderne crudeltà, è una profonda verità morale, un discorso sul male(3), sulla sua esistenza e immutabilità; una riflessione che Burke affronta con grande serietà, senza concedere al suo personaggio nessun tipo di scorciatoia(4): così, grazie a una prospettiva fideistica popolar-hollywoodiana, à l'Américaine (è solo per merito del “soprannaturale” aiuto di un angelo straccione, che la vicenda si risolve positivamente)(5), l'autore può permettersi di chiudere senza introdurre un facile lieto fine e senza contrapporre una "violenza giusta" a quella, insopportabile del vecchio Legion(6).
Il romanzo La ballata di Jolie Blon di James Lee Burke, edito da Meridiano Zero, è stato recentemente riproposto ai lettori italiani in edizione rivista e aggiornata, nell’ottima traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini.
(1) James Lee Burke, La ballata di Jolie Blon, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 5.
(2) Il nome del personaggio contiene un chiaro riferimento al Vangelo di Marco che, nel corso della narrazione, si fa sempre più esplicito. Recita Marco: “Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: "Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!". Gli diceva infatti: "Esci, spirito immondo, da quest'uomo!". E gli domandò: "Come ti chiami?". "Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti". E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi". Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare”. (Marco, 5:1 – 5:12).
(3)Il discorso non manca di qualche riflessione politica volutamente ingenua: sembra, a tratti, che i "ricchi" siano necessariamente "cattivi", e di converso (e in maniera altrettanto falsa) che tutti i "poveri" siano "buoni". I brani che danno questa impressione, che paiono semplificare una situazione difficilissima, nella quale le tracce di problemi sociali (si pensi alla questione razziale) vecchi o contemporanei si fondono alle colpe personali (antiche e presenti) in maniera inesplicabile, testimoniano in realtà perfettamente i travagli di Robicheaux, personaggio sempre in bilico, al confine tra granitico moralismo cristiano-americano "di destra" e attenzione alle vittime, tra senso del dovere da sbirro "duro" e cristiana (stavolta in senso positivo) comprensione e attenzione per gli "ultimi".
(4) In effetti, le ultime pagine lasciano intendere un possibile ricorso di Robicheaux alle maniere forti (cfr. p. 348), ma il provvidenziale intervento di Sal permette al protagonista di arrivare “immacolato” alla fine del romanzo. Lo stratagemma, lontano dai normali modi del romanzo nero, non stona con il finale “soprannaturale”; d’altra parte, il riferimento biblico, raro nella letteratura poliziesca, è un elemento centrale della grande letteratura degli stati del sud, da Flannery O’Connor a Faulkner, da Caldwell a Carson McCullers, e così via fino a McCarthy (tutti autori che Burke dimostra di aver letto e amato, e che si affacciano con prepotenza da alcune sue pagine)…
(5) Ed è quasi sorprendente che la figura stracciata e dolente del folle angelo-reduce non tolga nulla alla vicenda, ma contribuisca alla sua perfezione...
(6)Ben altra era la conclusione del più recente e meno riuscito L'urlo del vento...
Comincia così La ballata di Jolie Blon, opera tra le più riuscite di James Lee Burke: con l’evocazione di un passato che sembra da tempo dimenticato. Ma la descrizione della Lousiana degli anni ’40, apparentemente paragonabile- avvolta com’è dal comprensibile alone mitico di ogni luogo della memoria- alla terra verde e rigogliosa del 1860, abitata da “bravi cristiani”, patrioti e gentiluomini del sud, non dura molto: concluso un antefatto che poi si rivela tale solo da un punto di vista temporale, perché è quasi scollegato dal seguito, l’autore passa alla “nuova” New Iberia, dipinta in tutta la sua miseria attraverso l’evocazione di un paio di omicidi, quello di una sedicenne di buona famiglia, legata sotto un albero, violentata e uccisa a colpi di fucile, e quello di una prostituta tossicodipendente. La falsa opposizione tra paradisiaco passato e decaduto presente, creata dai capitoli iniziali, ha vita breve: per risolvere il caso, Robicheaux dovrà distogliere lo sguardo dal giovane, dolente bluesman Tee Bobby Hulin, presunto assassino delle due donne, per guardare indietro; e, nel farlo, non solo rivaluterà (svaluterà?) il passato, sistemando vecchi ricordi irrisolti e afferrando meccanismi vigenti (ma per lui incomprensibili) all’epoca della sua infanzia, ma si troverà ad affrontare un temibile superstite: il vecchio schiavista Legion(2) Guidry, emanazione prima del "male assoluto".
E mentre lo scontro si fa duro, e gli assalti del diabolico Guidry diventano diretti e violenti, Robicheaux deve tentare di mantenere sotto controllo una banda di mafiosi italiani imparentati con la prostituta uccisa, accorsi in città per indagare “in proprio”...
Il romanzo procede inesorabile, incidente dopo incidente, verso un “biblico” finale, e, intanto, quello che balza fuori dalle pagine, nel confronto serrato tra ferite passate e cicatrici presenti, tra antiche brutture e moderne crudeltà, è una profonda verità morale, un discorso sul male(3), sulla sua esistenza e immutabilità; una riflessione che Burke affronta con grande serietà, senza concedere al suo personaggio nessun tipo di scorciatoia(4): così, grazie a una prospettiva fideistica popolar-hollywoodiana, à l'Américaine (è solo per merito del “soprannaturale” aiuto di un angelo straccione, che la vicenda si risolve positivamente)(5), l'autore può permettersi di chiudere senza introdurre un facile lieto fine e senza contrapporre una "violenza giusta" a quella, insopportabile del vecchio Legion(6).
Il romanzo La ballata di Jolie Blon di James Lee Burke, edito da Meridiano Zero, è stato recentemente riproposto ai lettori italiani in edizione rivista e aggiornata, nell’ottima traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini.
(1) James Lee Burke, La ballata di Jolie Blon, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 5.
(2) Il nome del personaggio contiene un chiaro riferimento al Vangelo di Marco che, nel corso della narrazione, si fa sempre più esplicito. Recita Marco: “Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: "Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!". Gli diceva infatti: "Esci, spirito immondo, da quest'uomo!". E gli domandò: "Come ti chiami?". "Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti". E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi". Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare”. (Marco, 5:1 – 5:12).
(3)Il discorso non manca di qualche riflessione politica volutamente ingenua: sembra, a tratti, che i "ricchi" siano necessariamente "cattivi", e di converso (e in maniera altrettanto falsa) che tutti i "poveri" siano "buoni". I brani che danno questa impressione, che paiono semplificare una situazione difficilissima, nella quale le tracce di problemi sociali (si pensi alla questione razziale) vecchi o contemporanei si fondono alle colpe personali (antiche e presenti) in maniera inesplicabile, testimoniano in realtà perfettamente i travagli di Robicheaux, personaggio sempre in bilico, al confine tra granitico moralismo cristiano-americano "di destra" e attenzione alle vittime, tra senso del dovere da sbirro "duro" e cristiana (stavolta in senso positivo) comprensione e attenzione per gli "ultimi".
(4) In effetti, le ultime pagine lasciano intendere un possibile ricorso di Robicheaux alle maniere forti (cfr. p. 348), ma il provvidenziale intervento di Sal permette al protagonista di arrivare “immacolato” alla fine del romanzo. Lo stratagemma, lontano dai normali modi del romanzo nero, non stona con il finale “soprannaturale”; d’altra parte, il riferimento biblico, raro nella letteratura poliziesca, è un elemento centrale della grande letteratura degli stati del sud, da Flannery O’Connor a Faulkner, da Caldwell a Carson McCullers, e così via fino a McCarthy (tutti autori che Burke dimostra di aver letto e amato, e che si affacciano con prepotenza da alcune sue pagine)…
(5) Ed è quasi sorprendente che la figura stracciata e dolente del folle angelo-reduce non tolga nulla alla vicenda, ma contribuisca alla sua perfezione...
(6)Ben altra era la conclusione del più recente e meno riuscito L'urlo del vento...
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