Tuesday, December 08, 2009

Premio Scerbanenco: "Un bell'avvenire", di Marco Videtta

Recensione di Matteo Di Giulio

Per Marco Videtta non si tratta di vero e proprio esordio, visto che scrisse a quattro mani NordEst, bestseller d'inchiesta firmato con Massimo Carlotto. Eppure, sotto tanti punti di vista, Un bell'avvenire segna un secondo inizio. È una storia di finzione, è una storia scritta in prima persona, è una storia ambientata in un'altra epoca, il fascismo, è una storia che vede lo scrittore impegnato da solo contro gli incubi di un'altra generazione. È un libro post. Post genere, postmoderno, più che post noir, di cui tanto si parla in rete. Un romanzo storico che nonostante la forma piuttosto breve ha il grande respiro delle opere che attraversano la storia, quella vera, come schegge nel tempo.

Due fratelli, un ideale. Nero. Post nero anche in questo senso, perché il romanzo di Videtta si lega alle regole del genere e ne distorce le prospettive. New Italian Epic, volendo. E anche romanzo di formazione. Mai come in questo caso le etichette rendono difficoltoso - o agevole, a seconda dei punti di vista - il lavoro della critica. L'affresco che deriva dalla prosa asciutta e da un solido lavoro di ricerca parlano chiaro. L'interesse è per i personaggi e per i loro demoni, piuttosto che per i meccanismi narrativi, a loro modo secondari. Un bell'avvenire è un giallo, un giallo politico, o di inchiesta, come si diceva un tempo: una parentesi aperta nel passato, delineata lungo il filo della ricerca. L'Amitrano minore, devoto al fratello, invasato da Mussolini, vuole ricostruirne il periodo prima della morte, nonché il nome e il volto dell'assassino.

Il maggior merito di Videtta è di credere alla verosimiglianza di quanto racconta. Ma, per farlo, ricorre alla patina di eroismo di cui riveste i suoi personaggi. Combattono per idee. Un ossimoro contro l'oggi, svuotato di ogni possibile ideologia? Ipotesi a parte, è una storia che andava raccontata. Ricorda il cuore oscuro dell'Italietta di oltre sessant'anni fa, ne riporta su carta pulsioni, umori, sensazioni, e se pure lo sguardo è parziale, il suo farsi obliquo è un omaggio all'avventura, non al pericolo fine a se stesso dell'inquadramento sociale. Un bell'avvenire, finalista al premio Azzeccagarbugli e semifinalista allo Scerbanenco, parla con il cuore in mano, con quella schiettezza tipica dei popolani guidati dalla semplicità, quando semplice significava verace, e non era visto con accezione negativa.

Dietro il fossato dei generi, del pathos, del mistero, c'è ancora altro. C'è un libro di storia che riflette, per traslazione, su cosa siamo, da dove veniamo e - forse - dove stia andando una società che dei valori, con la V maiuscola, ha mantenuto solo la facciata. Perché i giovani di bell'avvenire, oggi, non sono più quelli di una volta. È solo quando si capisce che il discorso da vecchio trombone nasconde l'epica dei guerrieri che ci si lascia andare a scoprire l'ultimo, classico strato su cui si fonda il romanzo di Videtta. Un bell'avvenire intrattiene, commuove, distrae, fa riflettere. Il suo spirito non può non essere ambivalente, complementare come i due protagonisti in gioco: al tempo stesso noir e metaletterario, autoriale e artigianale, sacro e profano. Un post esordio da incorniciare.

Il romanzo Un bell'avvenire, di Marco Videtta, è edito da E/o.

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