Premio Scerbanenco: "Il posto di ognuno, L’estate del commissario Ricciardi", di Maurizio de Giovanni
Il corpo della duchessa Adriana Musso di Camparino, bella quanto infedele, giace privo di vita sul divano dell’anticamera situata alla fine della grande scala che porta al primo piano, nel palazzo di famiglia. Nell’angolo opposto rispetto al divano, perfettamente visibile agli occhi della sua mente, il commissario Ricciardi ascolta le parole che, ossessivamente, l’anima della duchessa ripete: L’anello l’anello, hai tolto l’anello, l’anello mi manca. È questo il potere del commissario, il “Fatto”, così lo definisce, ossia la capacità di vedere, dopo una morte violenta, la vittima che pronuncia a voce alta il suo ultimo pensiero.
Un dono maledetto. Glielo aveva predetto anche sua madre quando, con orrore, aveva intuito le sue facoltà. Sei maledetto, povero piccolo mio. Maledetto. Perché questo dono gli impedisce di amare qualcuno, o anche solo di farlo partecipe della sua vita legata, in qualche modo, al regno dei morti. Probabilmente è questa la ragione della sua natura schiva, riservata, della sua solitudine.
La terza stagione del barone Luigi Alfredo Ricciardi, commissario operativo della Regia Questura, accade nella calura estiva, a tratti torrida, di una Napoli del 1931. Il sole era alto e non faceva prigionieri.
Origini non proprio nobili; sposata in seconde nozze al quasi defunto Matteo Musso duca di Camparino, dopo essere stata l’infermiera della sua prima moglie; una relazione extraconiugale, molto tormentata, con il caporedattore del ‘Roma’ Mario Capece; un figliastro difficile da gestire; una serie di frequentazioni ambigue, due anelli perduti, un foro in mezzo alla fronte: chi era davvero Adriana Musso di Camparino? I capricci di una donna bellissima e instabile, insicura e fatua.
Comincia in una domenica afosa, insieme al fido brigadiere Raffaele Maione (alle prese con una dieta forzata) e al simpatico dottor Modo, medico legale, l’indagine del commissario Ricciardi volta a stabilire le cause e i responsabili dell’assassinio di uno dei personaggi più in vista della città. Chi ha ucciso la bella duchessa? Sebbene morta, a vederla stesa sul divano pare conservi ancora intatto il suo fascino. Eppure a Ricciardi, e a lui solo, è dato modo di constatare quanto la morte abbia oltraggiato la sua bellezza. La morte disordina.
L’indagine porta Ricciardi e Maione a conoscere una variegata teoria di personaggi, parte integrante del tessuto di quella società e che scandisce il ritmo vitale della Napoli nei primi anni del Novecento. Uno fra tutti il colorito travestito Bambinella, delicato e rispettoso omaggio al personaggio celeberrimo di Viviani, che tra gli inciuci di quartiere e il mestiere antico del femminiello, dà una mano al brigadiere Maione a raccogliere informazioni. La vita continua uguale a prima, ognuno al suo posto.
Dentro al commissario Ricciardi, esattamente al suo posto, c’è anche l’uomo Luigi Alfredo. Parallelamente alla storia dell’omicidio vengono disvelati i turbamenti, le ombre dell’animo umano, la sofferenza per il ‘Fatto’ sedata, nei momenti di luce, dall’impegno per la sua attività. Ma nella cupa solitudine del suo spazio notturno, Luigi Alfredo deve controllare i tumulti del cuore, costretto a barcamenarsi tra il desiderio della sua tata Rosa di vederlo finalmente sistemato e le fitte di gelosia che prova per Enrica, donna che vive di fronte casa sua e alla quale rivolge, da un anno, solo un breve cenno di saluto, tutte le sere, dalla finestra (la scena dell’incontro al Gambrinus, in una danza a quattro fatta di seduzione, ammiccamenti, aspettative, complotti sentimentali, è degna dell’ossessione e della precisione di Flaubert per i dettagli). Le cicatrici nascoste sono così. Ognuno ha le sue.
Orchestrata in terza ma con stranianti, talvolta commoventi, assoli in prima, la scrittura di Maurizio de Giovanni si muove, suona attraverso le strade della Napoli che fu. Dopo appena poche pagine frusciano le vesti tra le stanze di palazzo Musso, il rumore delle carrozze sui basoli dissestati entra dalla finestra aperta, nobili risate arrivano dalla platea del San Carlo, mentre il mare della città, con tutta la sua tranquillità trasparente e compatta, rincorre l’afa della notte per portarle un po’ d’acqua fresca. Ed è proprio così, la scrittura di de Giovanni rinfresca, rinfresca come solo l’acqua sa fare, e disseta l’arsura di letteratura (e non solo di scrittura) che – mai come in questi anni, in Italia – è emergenza di qualità. Una qualità che, a mio umile avviso, sta arrivando sempre più spesso dal parco autorale della generosa campania.
Dotata di una fluidità garbata ed elegante, questa scrittura restituisce da sola, e con stupore cristallino – ovvero, anche senza i vari elementi oggettivi distribuiti sapientemente e collocabili nel contesto storico narrato –, tutta l’atmosfera degli anni in cui la storia si svolge. E di stupore in stupore, con una precisione chirurgica all’improvviso, nel caldo della notte e nella musica che veniva da lontano, Ricciardi capì chi aveva ucciso Adriana Musso di Camparino. E perché lo aveva fatto.
Il romanzo Il posto di ognuno, di Maurizio de Giovanni, finalista al premio Scerbanenco 2009, è edito da Fandango.
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