Tuesday, June 17, 2008

M- Willard Grant Conspiracy: Pilgrim Road

Questo 2008 si sta rivelando un anno memorabile per gli amanti di un certo genere di country/folk dalle tinte fosche e malinconiche: dal mese di gennaio sono usciti, in ordine sparso, il disco The Hungry Saw degli inglesi Tindersticks, il self titled dei norvegesi Madrugada (che, pure sposando suoni spesso più duri ed elettrici, richiamano l’attenzione di tutti gli appassionati del genere con brani come Valley of deception, Our Time Won’t Live That Long, e soprattutto Look Away Lucifer), The Virginia EP dei National, Sunday at Devil Dirt che rinnova la collaborazione tra l’ex Screaming trees Mark Lanegan e la ex Belle et Sebastien Isobel Campbell, il mediocre Home Before Dark di Neil Diamond(1) per citare solo gli esempi più lampanti, ed ora è la volta di questo Pilgrim Road dei Willard Grant Conspiracy.
A due anni dal rumoroso e, ci pare, poco ispirato Let It Roll, uscito nel 2006 a segnare i dieci anni di attività del gruppo, i Willard Grant Conspiracy tornano alle sonorità acustiche con Pilgrim Road.
Gli undici pezzi del nuovo album (dieci più una traccia nascosta) composti da Robert Fisher(2) con la consueta maestria, cantati con la solita voce calda e profonda, arrangiati cedendo qua e là alle tentazioni orchestrali (si pensi, per esempio alla meravigliosa Painter Blue), ma con moderazione, con cura e controllo spesso introvabili anche nei lavori di professionisti ben più blasonati; l’insieme dimostra, per la gioia dei fan, che Robert Fisher e i suoi non sono ancora pronti a fermarsi.
I brani, in equilibrio tra ricerca religiosa/spirituale (es. The Great Deceiver) e rifugio nel mondano (es. The Pugilist) rinnovano e rifondano il legame tra questo particolare sottogenere dell’alternative country o del indie-folk, nato sul finire degli anni ‘90 dall’incrocio della musica di Nick Cave con le ballate orchestrali alla Scott Walker (quello dei tempi d’oro di Scott 2 e Scott Walker sings Jacques Brel), ed un esistenzialismo esteriorizzato, da romanzo (primi tra tutti i Tindersticks, che in un certo senso sono stati i fondatori di questo tipo di sound, nel loro brano Seeweed sembravano ammiccare alla narrativa di Sartre limata nei suoi angoli più spigolosi e dolenti), che, se non garantisce la qualità della scrittura, di certo impedisce di ricadere (o rifugiarsi) nel puro canzonettismo.
Un buon disco firmato da una band ingiustamente ignorata in Italia.



(1)La seconda collaborazione tra Neil Diamond e il produttore Rick Rubin delude un po’ gli amanti di 12 Songs per via del suono preciso ed organizzato: quello che colpiva nell’album precedente, le sonorità grezze, le ballate scarne e rarefatte, piene di tempi morti spezzati all’improvviso da tre note di tromba o di pianoforte, è andato perso in Home Before Dark; le atmosfere malinconiche sono state limate, le canzoni risultano più godibili (e quindi, viene da dire, meno oneste) e fin troppo raffinate.
(2)Tutti tranne la cover del brano Miracle on 8th Street degli American Music Club.

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