Tuesday, June 27, 2006

L- Cornell Woolrich : New York Blues


Finalmente pubblicati in Italia i primi otto tra 14 i racconti scelti dal biografo Francis M. Navis per celebrare il centenario della nascita dell’autore Cornell Woolrich.

I primi sette racconti in volume (pubblicati nel periodo 1936/1948) mostrano la buona penna di Woolrich impegnata in un pulp fantasioso (si pensi all’improbabile tentativo di omicidio del racconto “La sigaretta” che apre la raccolta), leggermente immaturo ( sia pure, già dominato dal caos, che si concreta in una serie di rapide coincidenze destinate a portare il protagonista sull’orlo della tragedia), privo di trama (in genere rovinato da finali lieti ed un po’ affrettati), ma pieno d’azione e stilisticamente perfetto, con ritmo ed effetti di suspence semplicemente invidiabili (generalmente ottenuti con “focalizzazione zero” ); tra i sette racconti vanno sicuramente segnalati l’esotico “Morte a Yoshiwara” e il ben congegnato “Puoi scommetterci la pelle” .

“New York Blues” (ottavo racconto, che dà giustamente il titolo al primo volume della raccolta), pubblicato postumo nel 1970 (probabilmente è uno degli ultimi sforzi letterari di Woolrich) mostra invece un autore più maturo e disincantato, pronto (abbandonato il semplice “Divertissement” dei primi racconti in favore di un progetto estetico o etico-introspettivo ben diverso) a dar vita ad un personaggio folle e pieno di disagio, disperato, tondo e ben definito nel suo mal-essere.

La suspence, ancora una volta magistralmente creata, è qui coadiuvata dall’ effetto sorpresa (che comunque rimane assolutamente indifferente al lettore come al protagonista, o semmai li catapulta entrambi in una dimensione ancora più cupa), ma è da quel senso di inesorabilità degli eventi tipico dei grandi noir che il racconto trae tutta la sua forza; il destino bonariamente avverso e soggetto a gli insperati rovesciamenti finali tipico dei primi racconti ha lasciato il posto a quel ben noto processo irreversibile e necessario che travolge e distrugge senza riguardi per il singolo.

Lo stile affilato e la narrazione in prima persona coinvolgono meglio e di più dei mille espedienti letterari delle prime narrazioni; il disagio, la malattia, il fato, la colpa vera o presunta, una certa impotenza, o incapacità di reagire a determinate situazioni (temi ai quali Woolrich, e altri grandi del noir ci hanno abituato), si trovano ben compendiati in questo racconto brevissimo, che si rivela un piccolo tesoro finalmente riconsegnato ad i lettori italiani.


“New York Blues” di Cornell Woolrich è edito da Feltrinelli.

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Friday, June 23, 2006

L- Daniel Pennac: La Prosivendola

Buone notizie in casa Malaussène: la diciannovenne Clara, fotografa della tribù, ha deciso di sposarsi; Clarence di Sant’ Inverno, il promesso sposo ( “un Angelo” di 58 anni), è direttore del carcere sperimentale di Champrond (all’interno del quale in sostituzione della normale detenzione, i carcerati vengono avviati, o incoraggiati alla produzione artistica).

Di fronte alla determinazione di Clara, Benjamin (di per se' restio a consegnare "la sua piccola Clarinette" ad un uomo tanto più anziano di lei, e rappresentante dell'ordine, per quanto riformatore) è costretto a cedere, ma il giorno delle nozze lo sposo viene trovato morto (apparentemente in seguito ad un’inattesa rivolta dei detenuti); sulla scena del crimine l’immancabile commissario Rabdomant.

Benjamin, che ha intanto lasciato il suo lavoro da capro espiatorio presso le “Edizioni del Taglione”, viene ri-assunto dalla Regina Zabo per interpretare il misterioso scrittore JLB, (mitico inventore del “Realismo Liberale”, la cui identità è ancora ignota al pubblico) in un ciclo di conferenze.
La commedia non dura a lungo; durante la prima apparizione pubblica Malaussène/JLB viene colpito alla testa da un colpo d’arma da fuoco.
Chi può volere la morte di JLB, e perchè?


L’autore (incuriosisce ormai il suo possibile rapporto con la filosofia di René Girard), abbandonato momentaneamente il nocciolo filosofico/riflessivo delle precedenti opere (che sembra qui ridotto a temi ben più pratici quali l’eutanasia, la donazione di organi e la morte cerebrale) si dedica con precisione quasi meccanica ad una storia “giallo-nera” dal tono più classico (alcuni paragrafi richiamano alla mente le ben note sequenze di “La Sposa in nero” di Truffaut), senza per questo abbandonare il “depistaggio” (peraltro diffuso anche nei classici del genere) fondato sulla focalizzazione esterna (tecnica già usata anche in “la fata carabina”, ma che assume forse dimensioni ancora maggiori in questo terzo capitolo della saga familiare dei Malaussène).

Lo svolgersi dell’intreccio vede ridotto in secondo piano il personaggio di Malaussène (è infatti finito in coma in seguito alla ferita riportata), e si concentra/procede per azione dei due caratteri femminili di Julie e della Regina Zabo (meravigliosamente delineata, quest’ultima, attraverso i racconti fatti dall’amico Loussa all’incosciente Malaussène).
La triste uscita di scena dell’ispettore Van Thian (l’uomo dal viso di Ho-Chi-min e la voce di Gabin già noto ai lettori di “la fata carabina”) è controbilanciata dall’arrivo del piccolo “E’ Un Angelo” (il nome, come di consueto è stato scelto da Jeremy), e dalla relativa maturazione di Verdun, che, ormai in grado di camminare, si innalza al ruolo di “guardiana” del nuovo arrivato.

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Saturday, June 17, 2006

L- Daniel Pennac: La fata Carabina


A Belville si dà la caccia ad un pazzo omicida, Julie Corrençon (già nota come Zia Julia ai lettori di “il paradiso degli orchi”) è impegnata in un nuovo scottante articolo, Thèrese legge ancora la mano, Clara guarda ancora al mondo attraverso l’obbiettivo della sua macchina fotografica, il piccolo, con i suoi occhiali dalla montatura rosa, è ancora il piccolo, Jeremy è ancora una mina vagante, Julius il cane ha ancora la bocca storta e la lingua a penzoloni, e Benjamin (ancora capro espiatorio, questa volta per conto delle “Edizioni del Taglione”) si trova nuovamente al centro dei sospetti della polizia di Parigi; insomma, niente è cambiato a Belleville.

Seconda incursione nel mondo di Benjamin Malaussène, un mondo “dove dei serbo-croati latinisti fabbricano donne-killer nelle catacombe, dove vecchie signore ammazano gli sbirri incaricati di proteggerle, dove librai in pensione sgozzano a man bassa per la gloria delle Belle Lettere, dove una cattiva ragazza si defenestra perché il padre è più cattivo di lei…” secondo le indimenticabili parole dell’ispettore Rabdomant, “la fata carabina” mantiene la ben nota ironia pennacchiana, alternando alla piacevole prosa, brevi capitoli dialogici come stralci di sceneggiatura che nascondono sotto la forma della “ricapitolazione” un reiterato tentativo di depistaggio.
Leggermente affrettato nella soluzione del “mini-caso” del biondino Vanini “frontalmente nazionale e dunque razzista” freddato da una vecchia “troppo veloce” (o meglio “trasformato in fiore da una fata”, per dirlo con le parole del piccolo), “la fata carabina” ri-dimostra sul lungo termine, la capacità di Pennac di saldare lo stile surreale, l’ironia moralizzante e l’intreccio ben articolato in un piccolo meccanismo ben oliato e privo dei minimi cigolii.

Indimenticabili i personaggi di Van Thian, Pastor e quello di Stojilkovicz, già presente, ma costretto ad un ruolo decisamente marginale in “Il paradiso degli orchi”.

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Thursday, June 15, 2006

L- Jim Thompson: L’assassino che è in me


Lou Ford è il ventinovenne vice-sceriffo della piccola Central City, Texas; è rispettato da tutti, e considerato uno dei migliori ragazzi del posto, irreprensibile nel suo lavoro, sempre pronto a dare una mano, forse leggermente sentenzioso, magari un po’ noioso, ma una gran brava persona.
Quando lo sceriffo Bob Maples lo incarica di andare a dare un’occhiata al villino di Joyce Lakeland (un prostituta di alto livello, che esercita solo in casa, e per pochi uomini facoltosi), ed eventualmente intimarle di lasciare la città, qualcosa dell’ oscuro passato del ragazzo riemerge.
Violento sotto la “lucida” superficie, Ford vede l’occasione di vendicarsi del vecchio Conway, un uomo in vista, una delle maggiori personalità del paese; per farlo non esiterà a liberarsi di un paio di persone, ma presto la realtà comincerà a correre troppo, ed il ragazzo sarà costretto ad agire di nuovo, lucido e razionale, ma definitivamente vittima della “malattia” che sembrava averlo abbandonato da anni.

Narrato in prima persona dal folle Lou Ford, “l’assassino che è in me” procede con un incredibile, lucida, linearità; il lettore non troverà nessuna falla nella fredda e folle razionalità di Ford, trovandosi quasi costretto a seguirlo fino alla tragica, inevitabile conclusione.

La mente criminale, elemento ricorrente in molte opere di Thompson (si pensi a “E’ già buio dolcezza”, “Ancora una notte” ecc.) trova qui una voce di un’altezza, di una precisione sconosciute.
La critica di un certo modo di vivere degli stati del sud, presente anche in altri opere quali “Colpo di spugna” (pop. 1280) trattata con l’ironia alla quale Thompson ci ha abituati, alleggerisce qua e là la vicenda, di per se’ crudissima.
Thompson, come Whitman, “sente l’america cantare” (nella doppia valenza stilistica/tematica), ma se“ognuno canta ciò che si addice a lui, a lei, a nessun altro*”, quello di Ford è piuttosto un urlo, il necessario controcanto al sogno americano.
Da "the killer inside me" è stato tratto l'omonimo film del 1976, diretto da Burt Kennedy.

“L’assassino che è in me” è edito da Fanucci.

*Walt Whitman: I Hear America Singing da Leaves of Grass

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Friday, June 02, 2006

L- Carlo Emilio Gadda: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana


Il “dottor Francesco Ingravallo, comandato alla mobile”, meglio noto come “Don Ciccio”, è un giovane poliziotto “non ancora commendatore”, chiamato ad indagare su due delitti avvenuti nello stesso palazzo, “er palazzo de li pescecani”; a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro.

Il primo delitto, una banale rapina, viene prontamente risolto con la collaborazione dei carabinieri di Marino; il secondo caso, l’omicidio della ricca Liliana Balducci (già conoscente di Don Ciccio, che provava per lei una segreta passione), resterà invece irrisolto.
Ispirato ad un reale fatto di cronaca, e prendendo per riferimento letterario il “Belli” dei Sonetti, il pasticciaccio è un opera unica, che, pur approfittando dei canoni del filone “poliziesco” (tra l’altro stravolti con l’ omissione del colpevole intuito, ma non dichiarato al termine del romanzo, e con la scelta di un “detective” anomalo come Ingravallo, così estraneo alla lineare logica “giallistica”, e così attento invece ad una realtà caotica e multisfaccettata dove una moltitudine di cause concorrono alla creazione di un singolo impiccio, gnommero o pasticcio) consente all’autore un indagine politico-sociale sulla Roma del “ventennio”, oltre che un lavoro linguistico intentato ed irripetibile.
La multidialettalità (nel romanzo si sovrappongono il romanesco delle borgate, il molisano di Ingravallo ed il napoletano, ma anche veneziano, milanese ecc.) come strumento di ricerca del vero, (il vero dialogico, ma anche il vero del sentire popolare) consente all’autore un uso sciolto e anti-accademico della parola, inframmezzato da parentesi realmente barocche e ottocentesche (si pensi alla descrizione di Roma all’alba che accompagna la gita del Prestalozi in motocicletta).
La critica politica, ironica, tagliente, a tratti furiosa, riempie la pagina infiammandosi a contatto con temi caldi quali la burocrazia, l’efficienza degli organi di polizia, un certo maschilismo che si traduceva facilmente in un tollerato lassismo dei costumi (si pensi qui al Balducci), la necessaria fertilità femminile (il mal de vivre della Balducci è dettato dalla sua impossibilità di avere figli) per giungere all’apice e, quasi al turpiloquio, dove applicata alla figura di Mussolini (si pensi ad espressioni quali “il Buce e il suo bucio”).

Da “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” è stato tratto il film “Un maledetto imbroglio” del 1959, diretto da Pietro Germi.

“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” è edito da Garzanti.

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