Sunday, August 08, 2010

Sebastian Fitzek: Schegge

«Fermo, aspetta, rimani qui. Voglio stringerti forte.»
«Ma che hai ora... piangi?».
«Ascolta, lo so che può sembrare assurdo, ma noi dobbiamo farci una promessa».
«Va bene, quale?».
«Se uno di noi dovesse morire – aspetta, lasciami finire, ti prego – deve mandare un segno all'altro».
«Cioè deve accendere la lampada?».
«In modo che sappiamo che, nonostante tutto, non siamo soli. Che ci pensiamo, anche se non possiamo vederci».(1)

Alzi la mano chi non ha mai sofferto a causa di abbandoni, perdite, rotture, lutti, sensi di colpa...
Certo, da qui a decidere di eliminare la memoria di ogni trauma, il passo è lungo, sopratutto se, per farlo, è necessario cancellare tutti i ricordi, per poi re-inserire solo quelli positivi.
È questa la questione che affligge il berlinese Marc Lucas, avvocato impegnato nel sociale, reso improvvisamente “instabile” da un terribile incidente; ma la sua indecisione non dura a lungo: giunto ad un passo dall'accettare l'offerta del folle dottor Bleibtreu, sperimentatore nel campo delle neuroscienze, Lucas lascia la clinica privata nella quale ha passato appena un paio d'ore, per trovarsi di fronte a un'inspiegabile verità: non è lui ad aver dimenticato il mondo, ma è il mondo ad aver dimenticato lui...

Ispirato alle ricerche di Mark Bear, scienziato del "Massachusets Institute of Technology"(2), “Schegge”, terzo romanzo del berlinese Sebastian Fitzek, è un solido thriller psicologico dai risvolti soprannaturali, che può contare su un intreccio volutamente e dichiaratamente surreale, complesso, ricco di depistaggi, incidenti e colpi di scena, ma abbastanza ben congegnato da permettere una perfetta ricomposizione (e ricostruzione) finale(3).
Se da un punto di vista stilistico non c'è molto da segnalare, a parte la scrittura precisa, minimale (ma, in questo caso, non scarna) e rapida (anche grazie alla bella traduzione di Claudia Crivellaro) imposta dai canoni del genere, è dal  punto di vista strutturale e meta-narrativo, che il romanzo dà il massimo, a partire dalla spaesante anacronia iniziale(4), e fino al chiarificante finale, che risolve tutte le apparenti incongruenze dell'intreccio. Ed è proprio in virtù di questa dimensione "sperimentale", che non rallenta la lettura (il lettore è avvisato: il romanzo tende a monopolizzare l'attenzione fino all'ultima pagina...), né guasta la fruizione “ingenua”, che “Schegge” si impone come uno dei migliori psyco-thriller dell'anno.
Da segnalare il pioneristico sistema di marketing virale messo a punto dalla casa editrice Elliot, la quale ha voluto accompagnare l'uscita di “Schegge”, con la creazione di due "dispositivi" -un particolare sito internet e un numero telefonico dedicato(5)- che, mimando l'inserimento del lettore all'interno della diegesi e l'annullamento del confine realtà/finzione, assecondano la vocazione meta-narrativa del romanzo.



(1)Sebastian Fitzek, “Schegge”, Elliot Edizioni, Roma 2010, p. 10. Traduzione di Claudia Crivellaro.
(2)Cfr. ivi, p.352 .
(3)Le proteste di chi considera il finale del romanzo “poco credibile” suonano piuttosto sconvolgenti considerato il mondo distortamente fiabesco (casa isolata nel bosco, protagonista moribondo ecc. ecc.) evocato nelle prime pagine...
(4)Il tempo dichiarato -quell'“Oggi” che fa da sottotitolo al semplice “1” che apre il primo capitolo “reale” del romanzo- cozza con l'espressione verbale al passato remoto; la frattura del piano temporale è comunque destinata a chiarirsi, sul finale, come trascrizione stilistica di un'opposizione interno/esterno, “tempo dei corpi”/....
(5)Link e numero di telefono sono stati inseriti nel libro in posizioni altamente strategiche...

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Tuesday, May 18, 2010

Ferdinand Von Schirach: Un colpo di vento


“Il nostro diritto penale è un diritto che guarda alla colpa. Puniamo la colpevolezza di una persona, ci chiediamo in che misura possiamo ritenerla responsabile dei sui atti. È una cosa complicata. Nel Medioevo era più semplice, si puniva solo l'atto: a un ladro si mozzava la mano. Sempre. Non importava che avesse rubato per avidità o perché altrimenti sarebbe morto di fame. La condanna allora era una specie di aritmetica, per ogni reato esisteva una punizione predeterminata. Oggi il nostro diritto penale è più saggio, è più equo nei confronti della vita, ma è anche più difficile. Una rapina in banca non è sempre solo una rapina in banca.”(1)



Dopo quarant'anni di pacifica convivenza, un irreprensibile medico uccide la moglie a colpi d'ascia; l'“innocuo” furto di un'antica tazza giapponese rischia di trascinare gli ignari ladri in guai ben peggiori di quelli semplicemente legali; le grandi speranze di una promettente violoncellista crollano sotto il peso di un'imprevista tragedia familiare; un rozzo balordo libanese viene assolto per via della testimonianza dell'(apparentemente) ingenuo fratello minore; un importante uomo politico accusato di omicidio si salva grazie alla perspicacia del suo avvocato; l'aggravarsi delle crisi di un giovane affetto da schizofrenia paranoide richiama l'attenzione dei familiari sull'inspiegabile scomparsa di una coetanea...

Misteriosi killer “coperti” da importanti avvocati, aspiranti cannibali, rapinatori dal cuore d'oro e custodi resi folli dalla ossessiva contemplazione di opere d'arte classica, giovani disposti -per amore- a liberarsi dei cadaveri di uomini morti per cause naturali, benevole prostitute assassinate, vecchi mafiosi giapponesi, prestatori su pegno e donne fatali; c'è tutto questo, e molto di più, negli undici racconti che compongono “Un colpo di vento”, opera prima del penalista berlinese Ferdinand Von Schirach: un discreto numero di casi esemplari, incredibili (ma veri), crudi, violenti, commoventi, raccontati in prima persona, con stile da '“alto minimalismo” americano, prosa invidiabilmente lineare(2) e tono confidenziale.
Casi ambientati sullo sfondo appena abbozzato (con pochi tratti assolutamente efficaci) di una Germania contemporanea lei cui metropoli non sembrano poi così lontane dalle nostre, e attraversati da un campionario di personaggi psicologicamente perfetti, più o meno colpevoli, ma trattati con un'“umanità”, un'empatia tale da costringere il lettore a rivedere il suo concetto di "colpa", troppo spesso segnato da un facile giustizialismo di ascendenza massmediatica.
E anche se l'autore rivendica per i suoi racconti un ruolo di puro "intrattenimento"(3), è proprio per l'aria di umanità, di "tolleranza" e "comprensione" che permeano tutta l'opera, per via di quella morale illuminista che si traduce in una forma di anacronistico garantismo, che speriamo che "Un colpo di vento" sia destinato ad avere, sul pubblico, un'influenza maggiore di quella generalmente esercitata dai comuni "casi letterari".



(1)Ferdinand Von Schirach, “Un colpo di vento”, Longanesi, Milano 2010, p. 236, traduzione di Irene Abigail Piccinini.
(2)E, d'altra, parte, l'autore non fa mistero di “ammirare molto” autori come Raymond Carver e Richard Ford, che non considera “modelli”, solo perché non crede che uno stile “possa essere copiato” (si veda l'intervista a me rilasciata, in uscita sul numero di giugno di “MilanoNera Mag”).
(3)Ma, nel farlo, cita un autore come Thomas Mann (si veda la già citata intervista per MilanoNera), ricollegandosi, così, a una tradizione tutt'altro che "disimpegnata"...

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