C- Clint Eastwood: Gran Torino
Stati Uniti, oggi. Walt Kowalski, ex-militare decorato in Corea e operaio Ford in pensione, è arrivato al capolinea: rimasto vedovo e unico “bianco” in un quartiere popolare ormai pieno di immigrati, abbandonato dal figlio troppo occupato per prendersi cura di lui, e dalla sua odiosa famiglia, sembra pronto per l’ospizio. Con un vecchio cane come unico amico e una Gran Torino del ’72 (simbolo palpabile del suo orgoglio americano) come sola passione, Kowaski ha fatto dell’allontanamento, dell’esclusione, della denigrazione del “diverso” (1), una ragione di vita; nel quartiere tutti lo conoscono come un vecchio scorbutico e pericoloso, pronto a scacciare gli “invasori” individuati sulla sua proprietà a colpi di fucile. Finché l’incontro con due ragazzini asiatici del vicinato non lo costringe a rivedere le sue posizioni…
Gran Torino è, innanzitutto, la storia di un rapporto tormentato: quello tra gli immigrati americani di vecchio corso, sbarcati nei primi decenni del ‘900, e i protagonisti di ondate più recenti, raccontata attraverso le relazioni di un vecchio polacco con i suoi vicini asiatici. Questa prima riflessione lascia, però, ben presto spazio ad altre considerazioni: Kowalski, infatti, non è un cognome polacco "qualunque", ma anche il nome dell’indimenticato e indimenticabile protagonista della pièce A streetcar named Desire di Tennessee Williams, divenuto, complice la notissima trasposizione cinematografica di Elia Kazan(2), una vera e propria icona della maschilità manesca, sensuale, virile, violenta, carnale(3). E ai caratteri di questa virilità antica, il Kowalski di Gran Torino, pur con qualche ruga e acciacco, corrisponde perfettamente: lo si vede fermo in piedi in mezzo allo schermo, pronto a fronteggiare gli attacchi (verbali, almeno in principio) di una banda di piccoli balordi, l’aria da Ispettore Callaghan invecchiato, ma la sua redenzione è già in atto. Sì, perché in terzo luogo, ed è questo l'aspetto principale del film, Gran Torino risponde, con ovvia attenzione per la dimensione morale, al filone del romanzo di formazione. Il trito (il che non significa definitivamente esausto) canone del romanzo di formazione nel quale l'anziano impara dai giovani, applicato ad una sceneggiatura non molto originale, avrebbe forse rischiato di tradursi, in mano ad altri registi, in un prodotto di bassa lega: nella declinazione eastwoodiana, da invece origine alla consueta narrazione lucida e meravigliosa, sommessamente riflessiva, sempre in bilico tra il poetico e il banale. In questo caso spiccano la bella, sconsolante, ricostruzione della solitudine connessa alla vecchiaia, le dinamiche perfette dell’anti-americana maturazione dello scorbutico protagonista, che dopo aver scoperto il “nemico” in famiglia (figlio e nuora pronti a rinchiuderlo, a dispetto della sua ovvia vitalità, all’ospizio; nipote che incomincia ad avanzare timide pretese sull’eredità ecc.), ritrova il “familiare” nei gentili vicini, inizialmente accomunati ai vecchi avversari coreani.
Racconto morale impreziosito da meravigliose parentesi western(4), pronto a risolvere l’infinita tensione americana tra rispetto della legalità e ricorso alla “giustizia fai-da-te”, con la proposta (ma, in fondo, chi può dire quanto sia seria e universalizzabile...) di un’originale e inattuale etica del sacrificio attraverso la quale i “vecchi” consegnano ai “giovani” un mondo migliore; completato da fotografia perfetta, taglio piacevolmente classico delle inquadrature, incredibile senso del ritmo (questo a dispetto dell’intreccio poco articolato) e realizzato con mezzi apprezzabilmente moderati, Gran Torino è un film perfetto, ennesima prova registica -incredibilmente riuscita- di un Eastwood che minaccia sempre di smettere e poi, per fortuna, non lo fa mai.
(1) Nel senso esteso ed inclusivo di razza, colore, sesso, nazionalità…
(2) La trasposizione di Kazan (1951) è tanto nota che ormai, nell'immaginario collettivo, Stanley Kowalski ha le fattezze di un Marlon Brando al massimo della forma.
(3) E attraverso questa citazione il film si apre ad una moderna revisione, ad un ammorbidimento delle classiche, rigide, definizioni di "genere": a Kowalski, rappresentante del “vecchio” maschio forte (chi meglio di Eastwood, da sempre legato al politcamente scorrettissimo “Dirty Harry” o alle figure di cavaliere solitario in salsa western?), fa da contraltare il giovane Thao, personaggio timido, pacifico, imbranato, la cui integrazione passa, non a caso, attraverso la sospensione delle attività femminili (es. il giardinaggio) e la scoperta del "duro" lavoro manuale, come luogo della creazione di una nuova identità nazionale "americana" attraverso una momentanea adesione ad un modello maschile “classico”.
(4) Si veda, per esempio la riproposizione del classico “duello suicida” in una versione "moralizzata"; se ne Il Mucchio Selvaggio, che del topos in questione fornisce uno degli esempi più noti, l'ultimo duello viene intrapreso con l'incoscienza, la "leggerezza" tipica dei membri della banda, come "ultima prova" (per quanto prevedibilmente fallimentare...), in Gran Torino il "suicidio" è premeditato, e serve ad accelerare i tempi per una soluzione "legale" del conflitto tra Thao e i suoi connazionali. Nella costruzione del finale, Eastwood gioca sui particolari in ellissi, racconta in maniera reticente, senza mai rivelare le reali intenzioni del protagonista, e istituisce, così, una funzionale ambiguità tra i modi e i riferimenti del western classico, e la soluzione di Kowalski. Rivista a posteriori la voluta ambiguità narrativa testimonia, in maniera riuscitissima, l'incertezza del protagonista, e sposta in primo piano il momento strettamente morale della scelta.
Gran Torino è, innanzitutto, la storia di un rapporto tormentato: quello tra gli immigrati americani di vecchio corso, sbarcati nei primi decenni del ‘900, e i protagonisti di ondate più recenti, raccontata attraverso le relazioni di un vecchio polacco con i suoi vicini asiatici. Questa prima riflessione lascia, però, ben presto spazio ad altre considerazioni: Kowalski, infatti, non è un cognome polacco "qualunque", ma anche il nome dell’indimenticato e indimenticabile protagonista della pièce A streetcar named Desire di Tennessee Williams, divenuto, complice la notissima trasposizione cinematografica di Elia Kazan(2), una vera e propria icona della maschilità manesca, sensuale, virile, violenta, carnale(3). E ai caratteri di questa virilità antica, il Kowalski di Gran Torino, pur con qualche ruga e acciacco, corrisponde perfettamente: lo si vede fermo in piedi in mezzo allo schermo, pronto a fronteggiare gli attacchi (verbali, almeno in principio) di una banda di piccoli balordi, l’aria da Ispettore Callaghan invecchiato, ma la sua redenzione è già in atto. Sì, perché in terzo luogo, ed è questo l'aspetto principale del film, Gran Torino risponde, con ovvia attenzione per la dimensione morale, al filone del romanzo di formazione. Il trito (il che non significa definitivamente esausto) canone del romanzo di formazione nel quale l'anziano impara dai giovani, applicato ad una sceneggiatura non molto originale, avrebbe forse rischiato di tradursi, in mano ad altri registi, in un prodotto di bassa lega: nella declinazione eastwoodiana, da invece origine alla consueta narrazione lucida e meravigliosa, sommessamente riflessiva, sempre in bilico tra il poetico e il banale. In questo caso spiccano la bella, sconsolante, ricostruzione della solitudine connessa alla vecchiaia, le dinamiche perfette dell’anti-americana maturazione dello scorbutico protagonista, che dopo aver scoperto il “nemico” in famiglia (figlio e nuora pronti a rinchiuderlo, a dispetto della sua ovvia vitalità, all’ospizio; nipote che incomincia ad avanzare timide pretese sull’eredità ecc.), ritrova il “familiare” nei gentili vicini, inizialmente accomunati ai vecchi avversari coreani.
Racconto morale impreziosito da meravigliose parentesi western(4), pronto a risolvere l’infinita tensione americana tra rispetto della legalità e ricorso alla “giustizia fai-da-te”, con la proposta (ma, in fondo, chi può dire quanto sia seria e universalizzabile...) di un’originale e inattuale etica del sacrificio attraverso la quale i “vecchi” consegnano ai “giovani” un mondo migliore; completato da fotografia perfetta, taglio piacevolmente classico delle inquadrature, incredibile senso del ritmo (questo a dispetto dell’intreccio poco articolato) e realizzato con mezzi apprezzabilmente moderati, Gran Torino è un film perfetto, ennesima prova registica -incredibilmente riuscita- di un Eastwood che minaccia sempre di smettere e poi, per fortuna, non lo fa mai.
(1) Nel senso esteso ed inclusivo di razza, colore, sesso, nazionalità…
(2) La trasposizione di Kazan (1951) è tanto nota che ormai, nell'immaginario collettivo, Stanley Kowalski ha le fattezze di un Marlon Brando al massimo della forma.
(3) E attraverso questa citazione il film si apre ad una moderna revisione, ad un ammorbidimento delle classiche, rigide, definizioni di "genere": a Kowalski, rappresentante del “vecchio” maschio forte (chi meglio di Eastwood, da sempre legato al politcamente scorrettissimo “Dirty Harry” o alle figure di cavaliere solitario in salsa western?), fa da contraltare il giovane Thao, personaggio timido, pacifico, imbranato, la cui integrazione passa, non a caso, attraverso la sospensione delle attività femminili (es. il giardinaggio) e la scoperta del "duro" lavoro manuale, come luogo della creazione di una nuova identità nazionale "americana" attraverso una momentanea adesione ad un modello maschile “classico”.
(4) Si veda, per esempio la riproposizione del classico “duello suicida” in una versione "moralizzata"; se ne Il Mucchio Selvaggio, che del topos in questione fornisce uno degli esempi più noti, l'ultimo duello viene intrapreso con l'incoscienza, la "leggerezza" tipica dei membri della banda, come "ultima prova" (per quanto prevedibilmente fallimentare...), in Gran Torino il "suicidio" è premeditato, e serve ad accelerare i tempi per una soluzione "legale" del conflitto tra Thao e i suoi connazionali. Nella costruzione del finale, Eastwood gioca sui particolari in ellissi, racconta in maniera reticente, senza mai rivelare le reali intenzioni del protagonista, e istituisce, così, una funzionale ambiguità tra i modi e i riferimenti del western classico, e la soluzione di Kowalski. Rivista a posteriori la voluta ambiguità narrativa testimonia, in maniera riuscitissima, l'incertezza del protagonista, e sposta in primo piano il momento strettamente morale della scelta.
Labels: Cinema, Cinema Americano Classico, Clint Eastwood, Duello suicida, Gran Torino, Maschilismo, Razzismo, Romanzo di Formazione, Usa, Western
6 Comments:
Applausi per l'eccellente analisi.
Concordo parola per parola.
Grazie. Pensavo di aver spinto troppo sull'aspetto identitario e troppo poco sull'intreccio (che però è abbastanza minimo...).
l'intreccio è praticamente inesistente (come - a fare due esempi su tutti i possibili - in Million Dollar Baby o in Mystic River), questo perchè l'approccio che ha Eastwood è tecnicamente asciutto/essenziale e contenutisticamente morale, etico: per affemare/enunciare un principio non dovrebbero servire troppe "parole".
Assolutamente d'accordo. L'intreccio praticamente inesistente era per me un fatto molto positivo. Considerato il carattere riflessivo e morale di queste ultime opere - aggiungerei Changeling ai citati Million Dollar Baby e Mystic River -, la scelta di un intreccio scarno è molto apprezzabile... mi chiedevo solo se non avessi finito, nello scrivere la recensione, per trascurare troppo la trama.
a mio parere no. anche perchè non amo molto le analisi/recensioni in cui si svela troppo. per me va benissimo così, proprio un bel pezzo.
Io dico che il vecchio "buono" incomincia a sentirsi la morte addosso e su questo suo feeling ci ha fatto un film.
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