Wednesday, June 10, 2009

L- Richard Brautigan: American Dust

(Foto: Oregon, di Ryan McCoy, http://shortleaf.com)

"Vorrei che invece di proiettili mi fosse venuta voglia di un hamburger. C’era un ristorante proprio di fianco all’armeria. Facevano degli ottimi hamburger, ma non avevo fame. Per il resto della vita penserò a quell’hamburger. Mi siederò lì, al bancone, tenendolo tra le mani, con le lacrime che mi scorrono lungo le guance. La cameriera guarderà altrove perché non le piace vedere i ragazzini piangere mentre mangiano hamburger e poi non vuole mettermi in imbarazzo"(1).

Usa, 1972; in un momento di folgorante lucidità autoriflessiva, un uomo poco al di sotto della quarantina rievoca, con tono già vecchio, stanco, distante, alcuni tra i momenti più importanti della sua infanzia, dal trasferimento in un appartamento attiguo alla sede di un’agenzia di pompe funebri alla comprensione dell’ineluttabilità della morte, dall’incontro con un vecchio eremita stabilitosi (ai tempi della Grande Depressione) in una baracca costruita alla meglio in riva ad un laghetto senza nome alla scoperta di una strana coppia di coniugi obesi pronti ad allestire, quotidianamente, un piccolo salotto all'aperto (con tanto di divani, poltrone, tavoli e lampade) per dedicarsi comodamente alla pesca dei pesci gatto, dall’amicizia con il giovane David al tragico incidente destinato a mettere fine ai suoi giorni ormai (quasi) felici, costringendolo ad un prematuro passaggio all’età adulta…

La rievocazione semi-autobiografica di Brautigan procede sicura ed elegante in una serie di piccoli frammenti, rapidi chiaroscuri appena abbozzati (ma con mano pesante e forti contrasti…) al carboncino, divisi tra prodezze stilistiche e sperimentazione linguistica(2), tra tensione lirica e tirate beat, e disposti a spirale, come in un progressivo avvicinamento all’evento centrale dell’incidente di caccia, al quale il protagonista allude fin dall'incipit, ma che diventa chiaro solo nelle ultime pagine.
Il racconto, introspettivo e personale, sembra opera di una voce vera, leggermente reticente, come se il narratore fosse colto nel deliberato, maldestro, tentativo di spostare lo sguardo su piccoli incidenti e fatti di poco conto per distoglierlo da un evento traumatico, ma il quadro generale delineato dai particolari è una perfetta ricostruzione (poetica, nostalgica, ma del tutto priva di moralismo) dell’America polverosa del secondo dopoguerra: un’America ancora viva e vitale, ma non più vitalista nel senso ingenuo del termine, il paese degli hamburger e delle pallottole, una mitica terra di frontiera dove "non era affatto insolito [...] vedere dei bambini andarsene tranquillamente in giro con dei fucili"(3), senza che per questo la gente si sentisse in dovere di chiamare la Guardia Nazionale(4), ma dove lo scatto di un grilletto era pur sempre sufficiente (e la vicenda del protagonista/narratore, riuscita traduzione, sul piano personale, dell'evoluzione dell'intera nazione, sembra testimoniarlo perfettamente) per segnare il passaggio diretto dall'infanzia alla maturità; un luogo già pieno di contraddizioni, di miseria(5) e di lati oscuri, colto sul punto di cedere alle pressioni di una modernizzazione disumana e raccontato giusto in tempo, prima che il "vento si portasse via tutto".

Tradotto da Enrico Monti con il solito, apprezzabile, gusto per le costruzioni americane (non è una novità: sue sono le meravigliose, recenti, versioni di Il mostro degli Hawkline e Una donna senza fortuna), scelta che contribuisce a ricreare nel testo italiano parte del fascino stridente e straniato della narrazione originale, American Dust, di Richard Brautigan è edito in Italia da ISBN.



(1) Richard Brautigan, American Dust, prima che il vento si porti via tutto, ISBN, Milano 2005, p. 13.
(2) Sfondando tutti i canoni del realismo classico, filone al quale il romanzo appartiene, almeno fino ad un certo punto, per tematica e stile, il narratore si rivolge al lettore servendosi di riferimenti tipografici ed editoriali.
(3) Ivi, p. 91.
(4) "Inutile dire che l'America è cambiata da quei giorni del 1948. Se oggi vi capitasse di vedere un dodicenne con un fucile sottobraccio di fronte a una stazione di servizio, probabilmente chiamereste la guardia nazionale e fareste anche bene"(Ivi, p. 87).
(5) “Un bambino di circa dieci anni ci vide arrivare e quando gli passammo vicino, ci urlò: ‘Figli di puttana, ce l’avete proprio tutti la bici. Un giorno ce l’avrò io la bici!’. Presto la sua voce si spense n lontananza come la voce di un sogno sognato lungo la strada, ma io mi voltai indietro a fissare quel sogno e riuscii ancora a vederlo che gridava, ma non riuscii a sentire nemmeno una parola. Era un altro di quei bambini che la povertà aveva fatto impazzire, con un padre alcolizzato che lo picchiava di continuo e gli diceva che sarebbe sempre stato un buono a nulla e avrebbe fatto la fine di suo padre, che è poi quello che succederà” (Ivi, p. 93), si legge, tanto per fare un esempio, in un brano di incredibile lucidità.

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