C- Wim Wenders: L’amico americano
Prendete un’uomo gravemente malato, colpito da un morbo la cui avanzata, pur producendo effetti imprevedibili, è inarrestabile; sceglietelo ateo, e preoccupato per la sorte di moglie e figlio in caso di morte; sceglietelo insospettabile, e affidategli un omicidio.
Tratto dal romanzo “Ripley’s Game” di Patricia Highsmith, l’amico americano, dimostra la sua ovvia superiorità rispetto ai successivi tentativi di portare sullo schermo il personaggio di Ripley (Il talento di Mr. Ripley, Il gioco di Ripley) nel meraviglioso linguaggio filmico, nella psicologia ben definita dei personaggi (senza la quale il soggetto risulterebbe snaturato), nella capacità di trattare argomenti quali la malattia, il senso di colpa, l’amicizia virile ecc.
Meravigliose le ampie inquadrature in esterno rette dalla profondità di campo e i complessi movimenti di macchina ottenuti con l’uso della Louma, di recente invenzione all’epoca della realizzazione del film (in seguito avrebbe trovato grande impiego nei piani sequenza complessi e movimentati di B. De Palma e molti altri).
Lo sviluppo della storia, segnato da un senso d’inevitabilità che rasenta ciò che in arte si considera “prevedibile”, riesce a dare conto dei tempi morti con l’indagine psicologica dei personaggi e con alcune meravigliose carrellate descrittive all’interno delle quali l’uomo, così poco padrone del proprio destino (anche nei momenti della scelta) è ridotto ad elemento appena visibile e anti-decorativo di fronte alla perfetta leggibilità dell’ambiente.
Le scene d’azione, mai completamente leggibili, e confuse, ad imitazione della realtà, sono brevi, ed assolutamente subordinate alla descrizione dei personaggi.
Da segnalare la presenza del regista Nicholas Ray nel ruolo del pittore Derwatt (che si finge morto vivendo da recluso per conferire maggiore valore alla sua opera).
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