Wednesday, May 05, 2010

Matteo Di Giulio: Quello che brucia non ritorna


“Sono scappato dal paese che amo e che odio, quell'Italia fascista fatta di vecchi testardi convinti che la paura di cambiare le cose sia una virtù. Milano, poi, è una città dove il sangue puzza di cemento: grigio abbandono e ortodossia asociale per un palcoscenico di serie B. Non è una metropoli ma una pallida imitazione.
Ho visto gran parte dell'Europa e so di cosa parlo.
L'ho abbandonata a se stessa, alla sua lussuosa decadenza, come una vecchia squillo una volta da assegno a quattro zeri, che oggi zoppica per fare marchette in strada in cambio di un assaggio di estasi che non dura mai abbastanza a lungo.
Speravo di non dover mai fare dietrofront.
Pensavo di aver chiuso il passato in un cassetto, a doppia mandata.
Purtroppo mi sbagliavo.” (1)

Davide “Smalley”, è un milanese originario del quartiere “Baggio”, naufragato ad Amsterdam dopo una breve deriva sullo sfondo dell'Europa dei tardi anni '90. Espatriato in seguito a una misteriosa colpa e ridotto a fare della fuga “uno stile di vita”(2), conduce un'esistenza anonima, divisa tra attività insulse, inutili passatempi e pranzi della domenica con l'unico amico Jan, finché, lo speciale fotografico di un quotidiano italiano -comprato più per ingannare la solitudine di un'umida giornata di ottobre, che per nostalgia o per vera curiosità- gli rivela la fine del “Laboratorio anarchico”, simbolo della sua tarda adolescenza milanese, dedicata all'hardcore-punk e allo stile “Straight edge” di Ian MacKaye e dei suoi “Minor Threat”.
Possibile che nessuno dei vecchi amici Drew, Lupo e Max, co-fondatori della band “Krakatoa” e compagni di mille lotte, abbia tentato di mettersi in contatto con lui?
Incredulo ma deciso, l'ex ragazzo ormai “alla soglia dei quarant'anni”, accompagnato dall'impenetrabile Jan, torna in città per fare i conti con il passato. Tra amori mai confessati, amicizie dimenticate e tradimenti subiti a metà, dovrà rendersi conto che alcune scelte non ammettono smentite, che certi conti non si possono saldare, e che “quello che brucia non ritorna”...

Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe scorrendo le note biografiche dell'autore(3), e in contrasto con scelte sempre più popolari nel panorama della letteratura di genere italiana (d'altra parte, la stessa appartenenza “al genere” di “Quello che brucia non ritorna”, è tutt'altro che assodata, e se non mi fossi già risolutamente espresso contro l'etichetta “post-noir”, me ne servirei ora senza esitazione...) e internazionale, la tecnica narrativa del romanzo, non è di derivazione cinematografica. Invano si cercano, qui, le sequenze ipercinetiche e costruite per pezzi brevi tipiche dell'action movie o del poliziesco di Hong Kong(4): la vicenda, riportata in prima persona, con oscillazioni verbali tra presente e passato prossimo, come per voler eliminare tutti i filtri tra personaggio e lettore(5) ha i ritmi pacati e regolari delle auto-narrazioni incentrate sull'interiorità. E, in effetti, è proprio il protagonista e narratore Smalley, a fare da soggetto e oggetto d'indagine(6), in un continuo rincorrersi di presente e passato, costruzione, scoperta e ricostruzione.
Pregevoli le ambientazioni contemporanee, ben costruiti e credibili (a dispetto delle biografie a volte eccessive(7)) i personaggi, e semplicemente perfette le ricostruzioni della “fine del movimento” e della defunta Milano anni '90. In fondo è proprio questo, "Quello che brucia non ritorna" (e chi non è convinto, vada a rileggersi l'incipit dopo aver concluso il romanzo): una dichiarazione di amore e d'odio per una città relitto, “un monumento, un gigantesco sepolcro” -la vecchia “Milano da bere”, diventata “Milano da pippare” e pronta a trasformarsi nella “Milano da imbalsamare”(8)-, accompagnata dalla profonda nostalgia per la fine di un'epoca, e il crollo di una serie di ideali.



(1)Matteo Di Giulio, “Quello che brucia non ritorna”, Agenzia X, Milano 2010, p. 5).
(2)Ivi, p. 6.
(3)Matteo Di Giulio, milanese, classe 1976 si è guadagnato una meritata notorietà grazie a pregevoli lavori di critica cinematografica.
(4)Il cinema resta comunque, come serbatoio di immagini da richiamare anche in maniera tematica (si pensi alla riflessione sull'amicizia virile nell'opera di John Woo), e al quale attingere, non tanto per agevolare lo scorrere della vicenda, quanto per conferire spessore e carattere ai personaggi, dotati gusti propri, e dunque di un personale immaginario di riferimento.
(5)Ma senza rinunciare a qualche piccolo passo indietro: in apertura al XVII capitolo, nel quale la vicenda sembra volgere al termine, il dialogo tra Smalley e Jan -pronti lanciarsi in un'azione folle pur di chiudere i conti col passato (e il fatto che le loro storie personali, ormai note, siano così diverse, sembra già anticipare la vanità del gesto)- è riportato in maniera indiretta, al chiaro scopo di mettere in ellissi elementi essenziali per l'anticipazione del finale, rafforzando l'effetto sorpresa.
(6)E questo vale sia dal punto di vista del lettore, che da quello del personaggio: se il protagonista, tentando di rimettere insieme i tasselli si trova a far chiarezza su se stesso, per buona parte del romanzo, è proprio la curiosità relativa alla sua misteriosa colpa passata a spingere il lettore ad andare avanti.
(7)Penso in particolare all'affascinante personaggio di Jan, il cui background cozza, almeno in parte, con il solido realismo dell'intreccio, riavvicinandosi agli schemi di una certa letteratura di genere.
(8)Ivi, p. 180.

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