Tuesday, June 22, 2010

René Frégni: Estate


In una mai nominata, ma riconoscibile Marsiglia contemporanea, il malinconico Paul – un uomo che, se solo non avesse dovuto “lavorare ogni singolo giorno della sua vita”, avrebbe voluto fare lo scrittore, e che da dieci anni cerca la seconda frase per un romanzo che probabilmente non avrà mai né il “tempo né il coraggio”(1) di scrivere-, tira avanti alla meglio, gestendo, con l'amico Tony, il ristorante “Petit Farci”; è anche riuscito a fare del semplice gesto di “lavare tazze e bicchieri in piedi dietro il bancone” guardando “le donne che attraversano la piazza”, il suo “piacere più grande”(2).
Certo, ogni tanto, la notte, quando si ritira nella sua stanza sopra il ristorante e “sotto i tetti”, esausto per il lavoro della giornata, sente un po' il peso della solitudine e delle promesse mancate, ma, be', ha visto momenti peggiori... o almeno così gli sembra, finché l'incontro con la splendida Sylvia, malinconica aspirante scrittrice, non gli mostra tutta la monotonia, la vuotezza della sua vita. Improvvisamente, solo una cosa conta: l'amore; l'amore di Sylvia, l'unico in grado di trasformare una primavera di eterne (e mai mantenute) promesse di felicità, in un'estate di realizzazioni. Ma le cose non sempre sono quello che sembrano, e, tanto per cominciare, per conquistare Sylvia, Paul dovrà vedersela con un concorrente, il violento pittore Altona, al quale la donna si sente legata in maniera indissolubile...

Scritto con la sorprendente linearità(3) del miglior Frégni, “Estate”, è un romanzo atipico, che rientra nel quadro del genere in virtù di una cornice “delittuosa”, e per via di una certa (nel caso specifico giustificatissima) misoginia di ritorno(4), ma se ne distacca per modi, ritmi ed esito: non solo perché il “fattaccio” avviene molto avanti nell'intreccio, e occupa una parte relativamente breve del testo, ma anche per l'aperta violazione dell'assunto secondo il quale “il crimine non paga” - vincolo narrativo quasi imprescindibile per il noir(5) classico-; sul finale (sia pure retrospettivo e nostalgico(6)), la vicenda sembra infatti lasciar filtrare uno spiraglio di luce, come a dire che, in fondo, c'è speranza per tutti.
"Impressionista" ma "psicologico", "morale" ma d'"intrattenimento", "scarno" ma "ambientale", "attraversato", ma non "dominato" dal caso, "Estate", di René Frégni, si impone al lettore come oggetto letterario dalle mille spiazzanti (ma interessanti e piacevoli) contraddizioni...

Il romanzo "Estate", di René Frégni, è edito in Italia da Meridiano Zero.



(1)René Frégni, "Estate", Meridiano Zero, Padova 2010, p. 21. Traduzione di Claudia Zonghetti.
(2)Ivi, p. 5.
(3)Volendo indulgere a un facile (troppo facile) biografismo, si potrebbe ricondurre lo stile piatto, e la sintassi semplice (non si esce, qui, in neppure un'occasione, dalla paratassi), dal passo corto, e l'uso, al di fuori del dialogo, di frasi brevissime, alle giovanili difficoltà d'apprendimento dell'autore. In realtà, la semplicità della narrazione rientra in una deliberata scelta mimetica, rivolta non tanto alla natura del protagonista, quanto ai suoi desideri: struttura semplice per un personaggio in cerca di una vita semplice, fatta di piaceri quotidiani, albe, tramonti, incontri con la donna amata ecc.
Assolutamente fuori luogo, in questo caso, qualunque preoccupazione relativa all'efficacia della prosa: la lingua “alleggerita” di Frégni, non solo ottiene il suo effetto, tratteggiando, in maniera deliberatamente naif, voci, profumi, ambienti, e arrivando a evocare la qualità della luce (quelle albe, e quei tramonti marsigliesi che i lettori di noir, orfani di Izzo da ormai un decennio, hanno troppo spesso cercato altrove), ma facilità l'identificazione (già piuttosto scontata, data la scelta del narratore autodiegetico e della focalizzazione interna fissa) del lettore con il protagonista e con le sue ambizioni.
(4)Il romanzo ripropone il mito della femme fatale, tentando persino una giustificazione (in senso narrativo, e non morale) psicologico/genetica del comportamento "deviato” del personaggio...
(5)Il principio è stato normativamente imposto, in maniera più o meno esplicita, dal “Motion Picture Production Code” emanato da Hays nel 1930; un'analisi dell'effetto della censura cinematografica sull'hard boiled prodotto nell'epoca classica del cinema hollywoodiano potrebbe forse aprire nuove prospettive su alcune direzioni prese dal genere in epoca più recente, dal noir esistenzialista alla rilettura neo-tragica proposta, tra gli altri, da Gilles Deleuze.
(6)C'è nel testo un impercettibile slittamento all'indietro: la narrazione, che parte al presente (l'eterno, monotono, presente della vita di Paul, anonimo gestore del “Petit Farci”), finisce con un blocco di testo al passato remoto “il giorno dopo salii su una nave e lasciai che fossero le onde a occuparsi della mia stanchezza” (p. 158); la cesura, formalmente irrintracciabile (brevi brani al passato remoto sono anacronicamente rintracciabili qua e là nel testo), è ovviamente costituita dalla rottura dei rapporti con Sylvia. Lo sguardo retrospettivo (evocato dalla scelta verbale, ed esplicitamente affermato, con l'intenzione di chiarire i moventi dell'agire della donna amata) e la scelta di “affidarsi alle onde”, nel tentativo di lenire una stanchezza che ha tutta l'aria di essere non fisica ma emotiva, conferiscono al personaggio un credibile tono dolente...

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Wednesday, June 09, 2010

Francisco Pérez Gandul: Cella 211


Spagna, oggi.
Il ventisettenne Juan Oliver soffre di violenti attacchi d'ansia - abbastanza violenti da lasciarlo, talvolta, privo di sensi: per questo, per evitare imbarazzanti reazioni emotive, si presenta con un giorno d'anticipo al carcere di massima sicurezza di Siviglia 2, dove dovrebbe prendere servizio come guardia. Ma lo stratagemma non funziona: accompagnato all'interno del carcere da due colleghi, Oliver viene colto da uno svenimento.
Decisi a non trasportarlo finché privo di sensi, i suoi accompagnatori lo stendono sul letto della cella 211, momentaneamente vuota.
È proprio allora che Malamadre, il detenuto più temuto dell'intero carcere, dà inizio ad una violenta rivolta.
Abbandonato dai colleghi, Juan Oliver non ha scelta: deve mescolarsi ai rivoltosi, o morire...

Opera prima del giornalista spagnolo Francisco Pérez Gandul, il romanzo “Cella 211”, uscito in Spagna nel 2004, è stato proposto ai lettori italiani quest'anno, parallelamente all'arrivo nelle sale dell'omonimo film di Daniel Monzón (uscito lo scorso 16 aprile).
Se la trasposizione cinematografica -pluripremiata sul piano internazionale- è costruita in maniera piuttosto stanca e tradizionale(1), lineare e a tratti poco ritmata, nella sua forma originale di romanzo, “Cella 211” può contare su una scelta narrativa decisamente inusuale: l'insieme dei fatti è ricostruito attraverso un'alternanza di punti di vista (la genettiana "focalizzazione interna multipla"(2)) che, dilatando indefinitamente i tempi del racconto, finisce per imporre ritmi di lettura forsennati.
Si aggiunga a questo che le voci narranti -tutte caratterizzate da elementi e registri personali, dalla violenta e insultante brachilogia di Malamadre, al formale (ma dolente) “rapporto” di Armando, passando per il divagare pacato e familiare di Oliver- sono (ri)costruite con grande realismo; che l'intreccio solido, credibile (a dispetto della trovata iniziale, a dir poco “fantasiosa”), e sostenuto da un'inattesa ferocia politica(3), recede, in ultimo, sullo sfondo, lasciando spazio a una serie di temi e considerazioni profondamente morali -dalla facile simmetria tra carcerati e carcerieri, al ruolo del caso nella vita individuale, dalla “pervasività” del male alla violenza “giusta”, dagli orrori della repressione al desiderio di vendetta-, e si avrà una visione d'insieme di “Cella 211”: uno degli esordi "dell'anno", forse destinato ad agitare -almeno per un po'- con la sua scelta narrativa originale, difficile, perfetta, le acque -sempre troppo chete, e segnate da un discreto conformismo- del panorama poliziesco internazionale.
Semplicemente imperdibile.

Il romanzo “Cella 211”, di Francisco Pérez Gandul, è edito in Italia da Marsilio.



(1)Mi limito a segnalare la perdita di originalità, per tacere delle piccole incongruenze generate, (talvolta inutilmente, in maniera del tutto gratuita), nel passaggio da un media all'altro, probabilmente nel tentativo di facilitare la fruizione ad un pubblico cinematografico ritenuto "meno preparato".
(2)Il passaggio da un punto di vista all'altro è deliberatamente utilizzato in funzione “parallittica”, per creare improvvisi restringimenti, o piuttosto spostamenti della prospettiva, che si rivelano, curiosamente, più utili alla costruzione della suspence che a quella dei prevedibili "effetti sorpresa": il lettore, che ha intravisto “il pericolo”, si ritrova improvvisamente catapultato “all'interno” di un personaggio ancora all'oscuro di tutto, ed è così costretto a rincorrere il successivo spostamento...
A mantenere viva l'attenzione contribuiscono, poi, le anacronie create dall'asimmetrico posizionamento dei narratori (due dei personaggi raccontano al passato, mente il terzo, si esprime al presente) elemento “dissonante” le cui motivazioni si fanno sempre più chiare man mano che il romanzo procede.
(3)Se Carlo Oliva nella sua essenziale “Storia sociale del giallo” indicava nella riflessione politica uno dei caratteri peculiari del poliziesco iberico, qui l'accento è tutto sulla dimensione morale; il motivo politico figura piuttosto in chiave negativa -come disimpegno sociale rispetto alle condizioni dei carcerati e dei loro parenti- o, incarnato nei tre malcapitati detenuti dell'ETA, come elemento sul quare far presa per vedere esaudite le proprie richieste...

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