Saturday, May 29, 2010

Jacques Chessex: L'orco



“Stavano per raggiungere un ponte fiancheggiato da obelischi allorché la classe si fermò di colpo davanti a un monumento strabiliante. Si levarono grida, risate. Jean Calmet, che camminava come un sonnambulo, alzò gli occhi e rimase stupefatto: un orco era seduto in cima a una fontana e divorava un bambino già mezzo inghiottito, con le natiche nude e le piccole cosce grassocce che si dimenavano sulla gola insanguinata. Jean Calmet strizzò gli occhi per vedere meglio: la scena era spaventosa.” (1)


Sono i primi anni '70, e il fermento culturale che ha scosso i giovani di tutto il mondo sembra essere approdato perfino nella tranquilla Svizzera. Non si tratta certo di una grande rivoluzione; piuttosto di un generico clima d'emancipazione... così, ad esempio, a Losanna, gli studenti delle superiori sono pronti a scendere in piazza per rivendicare diritti misteriosamente negati. A guardarli dall'ombra -un sorriso complice fermo a fior di labbra- il modesto professore di lettere classiche Jean Calmet, non più giovane (almeno non nel senso in cui lo sono gli studenti ai quali va la sua simpatia) ma ancora sospeso in una situazione di adolescenziale indeterminatezza, una mancanza d'identità imposta dall'insormontabile ombra del padre, un uomo appena sepolto, che ha mantenuto, fino all'ultimo, appetiti insaziabili: un padre-orco forse disposto, come Crono, a divorare i suoi figli pur di non essere detronizzato...

In uscita in questi giorni per Fazi Editore, il romanzo “L'orco”, premiato nel 1973 con il prestigioso “Premio Goncourt”, è probabilmente l'opera più "dolente" e “difficile” di Jacques Chessex: dolente perché vi si racconta -in terza persona, attraverso un narratore onnisciente che riporta il punto di vista del protagonista, senza mai assumerlo(2)-, una vicenda dalle ovvie risonanze autobiografiche(3); difficile perché la ricostruzione della problematica identitaria (generata da un rapporto psicologico complesso, conflittuale, patologico, irrisolvibile(4)), e l'evocazione delle sue estreme conseguenze, si fanno strada, nel testo, attraverso un'alternanza di pagine di pura narrazione e attente notazioni ambientali (spesso esteriorizzazione, materializzazione, di stati psicologici), inattese ierofanie, suggestioni autoritarie (la violenza nazista come estrema ratio per l'affermazione del se' e ricorso ad una presunta identità “di razza” sostitutiva rispetto a quella -individuale- mancante) pronte a rovesciarsi in laceranti sensi di colpa, improvvise rivelazioni dionisiache e regresso al mito (esaltazione di un “vitale”(5) naturale che oscilla tra le due polarità di "sottrazione dal" ed "evocazione del" padre(6)).
E la vicenda non si esaurisce nella dimensione familiare: il conflitto tra il mite figlio Calmet e il padre-orco, coinvolge -secondo una suggestione junghiana- l'intero concetto di autorità; il tiepido simpatizzare del professore per i movimenti studenteschi apre, così, la strada, a una rilettura metaforica del '68 e all'anticipazione del suo fallimento su basi morali (scarsa convinzione) e fisiologiche (il passare del tempo che trasforma in "vecchi" i giovani studenti, peraltro già pronti a farsi “padri castigatori” (cfr. p. 113)).
L'essenza del romanzo si realizza, comunque, nella dimensione tragica: in un mondo che ha già conosciuto l'esistenzialismo(7), Jean Calmet è l'eroe (ancora) romantico che, avendo bussato inutilmente alla porta di un dio assente, cieco e muto, e avendo tentato -senza successo- la strada della poesia e quella dell'amore, posto, insomma, di fronte alla totale mancanza di "scelte positive", e all'impossibilità di ogni redenzione, è pronto a scegliere la morte(8), nell'estremo tentativo di sottrarsi al puro dominio del fato.



(1)Jacques Chessex,“L'orco”, Fazi Editore, Roma 2010, p. 176, traduzione di Maurizio Ferrara.
(2)La scelta narrativa, a prima vista piuttosto convenzionale, nasconde in realtà un volontario sdoppiamento “auto-terapeutico”, e uno spostamento del contenuto biografico sul piano finzionale che permette all'autore di dedicarsi a quell'opera di “riscrittura del se'” che è negata al protagonista.
(3)Dalle iniziali J.C., comuni a Jean Calmet e Jacques Chessex (ma anche a Jean Calvin, come fa notare Tommaso Pincio nella sua interessante introduzione all'opera), alla posizione di Calmet, effettivamente professore in un liceo di Losanna nel periodo d'ambientazione del romanzo, e così via fino al tormentato rapporto con il padre.
(4)È l'irrimediabile scomparsa “naturale” del padre-nemico a vanificare ogni sforzo culturale di composizione o risoluzione del conflitto.
(5)Nella determinazione dell'opposizione tra giovanile (e naturale) vitalità e responsabilità, noia e geriatrico ricorso all'autorità, è essenziale l'osservazione del personaggio di Therèse Dubois (o “Du Bois” - letteralmente “del bosco”, secondo un'interpretazione che l'autore stesso suggerisce a più riprese attraverso l'associazione con immagini silvestri, naturali o fantastiche, che vanno dal gatto alla fata, dal latte alla pietra focaia).
(6)Proprio per via di questo secondo polo che evoca l'incontinente esuberanza del genitore, la pura "naturalità" (pre-culturale solo in maniera presunta, in quanto frutto di una scelta) perde ogni valore salvifico.
(7) E, d'altra parte, l'esperienza de "La Nausea" (anche se, più che da Sarte, il personaggio di Jean potrebbe essere stato creato -per problematiche e psicologia- dalla penna di Drieu La Rochelle) sembra affiorare a più riprese.
(8) Ma una morte come "atto" culturale, privo dell'elemento spaventoso, ingiusto (si vedano i brani relativi alla dipartita della giovane studentessa), tipico del "fatto" naturale e incontrollabile.

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Monday, May 24, 2010

Piero Calò: L'occhio di porco


“Di facile aveva solo il nome, Tania, e la frangetta più nera del peccato mortale. Da quel punto in avanti Tania non era difficile, era un suicidio e fissarla a lungo -e potevi solo fissarla a lungo- ti costava la dannazione di don Paolo, le indagini del maresciallo Ovetto e, a chiudere in bellezza, sei mesi d'ospedale per mano di Gigione Lorco, suo padre. Aveva quattordici anni, Tania, e già bellissima se ne passeggiava da sola per il viale del paese con la schiena dritta e il gonnellino rosso così oscenamente svolazzante che solo un grande coraggio sarebbe riuscito a sollevarlo, e nel paese si scommetteva allegramente sull'identità del cuor di leone, tra un caffè corretto e un analcolico con la fetta di limone a mezzaluna.”(1)


Paisiello è un'anonima località di mare del sud Italia -un luogo tranquillo, stretto, com'è, tra la spiaggia di Pappasiello, la ferrovia, e il basso e arido Monte Pietro- i cui abitanti partecipano, per volontà del potente Adriano Masciarò (misterioso possidente non privo d'inventiva), a una sorta di esperimento sociale: tutti lavorano, guadagnano e spendono solo ed esclusivamente all'interno dei confini del paese.
L'unica eccezione alla perfetta autarchia economica della comunità, è data dalle merci in transito per la “Tessera”, strano ibrido tra un'antica fortezza e un magazzino di stoccaggio, gestito dallo stesso Masciarò.
Ma a guidare il suo comportamento, non è il gusto per il monopolio: il notabile è alle prese con il tentativo un po' folle di creare la società perfetta, priva di criminalità e disoccupazione, miseria e fatti di sangue.
A dispetto delle buone intenzioni, però, l'ordine cittadino sta per essere turbato dal ritrovamento di due cadaveri: quello della bella quattordicenne Tania, e quello del suo presunto amante Franco Bolla...

Senza esitazione, l'autore costruisce sotto gli occhi del lettore -tra le chiacchiere da bar della “staffa” (2), le timide indagini del Maresciallo Ovetto (a metà strada tra un “Commissario Pepe” fuori zona e un Ingravallo al confino), le intuizioni di Luca Goglioni e le improvvise rivelazioni di Adriano Masciarò-, un giallo atipico, la cui soluzione risiede in una verità complessa e confusamente camuffata; una verità faticosamente riconquistata, a dispetto dei numerosi depistaggi, attraverso il vaglio di false affermazioni, versioni discordanti (dettate un po' dall'ipocrisia, e un po' dalla mancanza d'informazione dei personaggi) e parziali smentite.
La complessità degli eventi (che poi si riduce, in buona misura, a una stratificazione di azioni e avvenimenti passati, mai chiariti, e ormai quasi indecifrabili) è espressa attraverso una spiazzante varietà di scelte narrative: non solo una molteplicità di tempi verbali la cui oscillazione non indica la disposizione cronologica tra i brani(3), ma anche un intero campionario di punti di vista e relazioni di focalizzazione(4) che si alternano in maniera imprevedibile.
Tra le scelte narrative e il lavoro linguistico (strutturale e non lessicale(5)), che conferisce al romanzo un ritmo, una cadenza impalpabilmente meridionale, “L'occhio di porco”, suona come un “Pasticciaccio”, riscritto in salsa paesana con benniana leggerezza, ma senza rinunciare a una cornice strettamente realistica e inaspettatamente amara; al di là del simpatico universo popolare, la cui comicità è ingigantita dall'auto-segregazione dei paesani(6), e oltre il curioso contrasto tra mentalità “antiquata” e ambientazione contemporanea, la realtà “vera”, quella visibile attraverso l'“occhio di porco” (il termine indica, oltre a un “irripetibile” particolare anatomico(7), una precisa modalità dello sguardo, identificabile con il “diaframmare per cogliere i particolari”) rivela un fondamento pacatamente pessimista. Ma, se l'utopistico esperimento politico-sociale di Masciarò naufraga, producendo effetti distopici, il lettore è pur sempre pronto ad accogliere il tutto con un'amara risata...

“L'occhio di porco”, di Piero Calò è edito da Instar Libri.



(1)Piero Calò, “L'occhio di porco”, Instar libri, Torino 2010, p. 7.
(2)Un vero e proprio organo d'informazione (o disinformazione) locale, piuttosto che un semplice circolo di aficionados del Bar Centrale...
(3)Si veda, per esempio, il capitolo 2 della sezione “Tutti pazzi per Tania” (pp. 64-66), nel quale azioni e pensieri del già defunto Franco Bolla sono espresse al presente, in un brano il cui carattere analettico non è rivelato da nessun particolare accorgimento grafico, né tanto meno dichiarato, mentre i dettagli relativi alle condizioni della salma sono già state riferite al trapassato remoto (p. 17), ecc.
(4)Si passa con disinvoltura dalle micro-narrazioni rese, in prima persona, da personaggi appartenenti alla diegesi, ai brani espressi in terza persona da un onnisciente (ma sempre convenzionalmente reticente) narratore extradiegetico.
(5)Non è attraverso l'uso di termini dialettali, ma con la costruzione atipica del periodo, che l'autore impone al suo romanzo una forte connotazione geografica.
(6)Proprio in virtù di questo, per la loro “unicità” forzata ed eccessiva, i personaggi sembrano guadagnare un'irraggiungibile universalità, il carattere quasi archetipo delle “maschere”, rispetto alle quali i "comuni mortali" non sono che semplici, imperfette, copie.
(7)Per il particolare anatomico, cfr. p. 64.

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Intervista a Paula Vene Smith


Una mia intervista alla scrittrice americana Paula Vene Smith è stata pubblicata sul numero di maggio di Milano Nera Mag.

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Tuesday, May 18, 2010

Ferdinand Von Schirach: Un colpo di vento


“Il nostro diritto penale è un diritto che guarda alla colpa. Puniamo la colpevolezza di una persona, ci chiediamo in che misura possiamo ritenerla responsabile dei sui atti. È una cosa complicata. Nel Medioevo era più semplice, si puniva solo l'atto: a un ladro si mozzava la mano. Sempre. Non importava che avesse rubato per avidità o perché altrimenti sarebbe morto di fame. La condanna allora era una specie di aritmetica, per ogni reato esisteva una punizione predeterminata. Oggi il nostro diritto penale è più saggio, è più equo nei confronti della vita, ma è anche più difficile. Una rapina in banca non è sempre solo una rapina in banca.”(1)



Dopo quarant'anni di pacifica convivenza, un irreprensibile medico uccide la moglie a colpi d'ascia; l'“innocuo” furto di un'antica tazza giapponese rischia di trascinare gli ignari ladri in guai ben peggiori di quelli semplicemente legali; le grandi speranze di una promettente violoncellista crollano sotto il peso di un'imprevista tragedia familiare; un rozzo balordo libanese viene assolto per via della testimonianza dell'(apparentemente) ingenuo fratello minore; un importante uomo politico accusato di omicidio si salva grazie alla perspicacia del suo avvocato; l'aggravarsi delle crisi di un giovane affetto da schizofrenia paranoide richiama l'attenzione dei familiari sull'inspiegabile scomparsa di una coetanea...

Misteriosi killer “coperti” da importanti avvocati, aspiranti cannibali, rapinatori dal cuore d'oro e custodi resi folli dalla ossessiva contemplazione di opere d'arte classica, giovani disposti -per amore- a liberarsi dei cadaveri di uomini morti per cause naturali, benevole prostitute assassinate, vecchi mafiosi giapponesi, prestatori su pegno e donne fatali; c'è tutto questo, e molto di più, negli undici racconti che compongono “Un colpo di vento”, opera prima del penalista berlinese Ferdinand Von Schirach: un discreto numero di casi esemplari, incredibili (ma veri), crudi, violenti, commoventi, raccontati in prima persona, con stile da '“alto minimalismo” americano, prosa invidiabilmente lineare(2) e tono confidenziale.
Casi ambientati sullo sfondo appena abbozzato (con pochi tratti assolutamente efficaci) di una Germania contemporanea lei cui metropoli non sembrano poi così lontane dalle nostre, e attraversati da un campionario di personaggi psicologicamente perfetti, più o meno colpevoli, ma trattati con un'“umanità”, un'empatia tale da costringere il lettore a rivedere il suo concetto di "colpa", troppo spesso segnato da un facile giustizialismo di ascendenza massmediatica.
E anche se l'autore rivendica per i suoi racconti un ruolo di puro "intrattenimento"(3), è proprio per l'aria di umanità, di "tolleranza" e "comprensione" che permeano tutta l'opera, per via di quella morale illuminista che si traduce in una forma di anacronistico garantismo, che speriamo che "Un colpo di vento" sia destinato ad avere, sul pubblico, un'influenza maggiore di quella generalmente esercitata dai comuni "casi letterari".



(1)Ferdinand Von Schirach, “Un colpo di vento”, Longanesi, Milano 2010, p. 236, traduzione di Irene Abigail Piccinini.
(2)E, d'altra, parte, l'autore non fa mistero di “ammirare molto” autori come Raymond Carver e Richard Ford, che non considera “modelli”, solo perché non crede che uno stile “possa essere copiato” (si veda l'intervista a me rilasciata, in uscita sul numero di giugno di “MilanoNera Mag”).
(3)Ma, nel farlo, cita un autore come Thomas Mann (si veda la già citata intervista per MilanoNera), ricollegandosi, così, a una tradizione tutt'altro che "disimpegnata"...

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Tuesday, May 11, 2010

Marina Visentin: Biancaneve



“È stato quello l'inizio di tutto. Quello stupido pensiero. Io non conto, non ci posso fare niente[…].
Stupida prima ancora che cattiva. La cattiveria è venuta dopo”.(1)


La madre la chiamava “Biancaneve”, per via della carnagione chiara e dei capelli scuri (che, fatti crescere a dovere, avrebbero dovuto renderla bellissima), ma il mondo dell'anonima professoressa che fa da protagonista e narratrice del romanzo -una donna pronta a ridivenire uno “scricciolo senza forme”(2), al primo sguardo cattivo del “suo” uomo-, è tutt'altro che fiabesco: sì, perché, nella vita, la timida “Biancaneve”, ha sempre dovuto vedersela con fidanzati falsi, distanti, traditori, e con amiche troppo attraenti, vitali e spigliate. Si è sempre sudata ogni minima vittoria.
E non parliamo poi di “lieto fine”: a poco più di trent'anni, il massimo a cui possa aspirare è un qualche rapporto tiepido con un uomo di seconda mano. E a che prezzo, poi...

Raccontato in prima persona e al passato remoto, ma racchiuso tra due brevi monologhi interiori(3), che fanno eco allo stato d'esaltazione della protagonista(4), il romanzo porta in scena una variante noir del più “classico” triangolo amoroso, e sfiora il tema della “violenza di genere”(5), trasfigurando, però, il motivo sociologico, statistico e “di cronaca”, in un intreccio “nero” tutto giocato sulla dimensione psicologica.
Con piglio sicuro -d'altra parte, a sostenerla nell'impresa c'è un quintetto di personaggi perfetti e perfettamente definiti, da Biancaneve, vittima delle situazioni e incapace di prendere la benché minima decisione senza l'aiuto dell'amato (e temuto) “I Ching”(6), all'insopportabile e manesco Alberto, passando per l'amica Rossana, l'anonima studentessa di farmacia e il commissario Zonta-, l'autrice conduce i lettori per mano, dall'iniziale, fredda e “ben educata” esistenza della protagonista (incapace di incidere su un mondo “estraneo”), al “tragico” finale, dettato da un caso non “cieco”, ma “vendicativo”(7)); il tutto secondo una serie di passaggi strettamente logici, che affiancano alla dostoevskiana considerazione dei meccanismi psicologici di rimozione, d'elaborazione del lutto e del senso di colpa(8), lo sviluppo di una crudeltà e di una freddezza delle quali la “Biancaneve” delle prime pagine sembrava del tutto incapace...

Il romanzo “Biancaneve”, di Marina Visentin, è edito da Todaro.



(1)Marina Visentin, “Biancaneve”, Todaro Editore, Lugano 2010, p. 110.
(2)Ivi, p. 7.
(3)I monologhi permettono all'autrice di inscrivere il racconto in una cornice quasi-circolare: a ben vedere, incipit ed excipit non coincidono, come se nel corso della lettura qualcosa fosse cambiato in maniera irrimediabile, per il lettore come per la protagonista.
(4)Ma la momentanea “follia” della protagonista non diviene mai pretesto per una sospensione del controllo linguistico e sintattico: la scrittura di Marina Visentin (copywriter, giornalista e traduttrice, e quindi tutt'altro che esordiente, seppure alle prese con il suo primo romanzo) è incredibilmente precisa, dalla prima all'ultima pagina.
(5)Quello della violenza sulle donne è un tema “collaterale” ma fortissimo, affrontato con la cura per il particolare psicologico che caratterizza l'intero romanzo; si veda, per esempio, la ricostruzione di pagina 125, aperta dal proverbiale “non mi aveva fatto poi così male quella volta”...
(6)Oracolo che, parafrasando la durrenmattiana “Morte della Pizia”, “profeta a casaccio, vaticina alla cieca”, ma che finisce per avere ragione, un po' per via della già citata insicurezza della protagonista, e un po' perché “altrettanto ciecamente viene creduto”.
(7)“Vedi, amore mio, cosa succede a sfidare gli Dei? La loro vendetta è terribile. E non c'è perdono”, recita l'impenetrabile (almeno alla prima lettura) incipit...
(8)Si veda, a titolo d'esempio, il meraviglioso brano relativo al (tardivo) sogno dell'amica morta pp. 97-98.

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Wednesday, May 05, 2010

Matteo Di Giulio: Quello che brucia non ritorna


“Sono scappato dal paese che amo e che odio, quell'Italia fascista fatta di vecchi testardi convinti che la paura di cambiare le cose sia una virtù. Milano, poi, è una città dove il sangue puzza di cemento: grigio abbandono e ortodossia asociale per un palcoscenico di serie B. Non è una metropoli ma una pallida imitazione.
Ho visto gran parte dell'Europa e so di cosa parlo.
L'ho abbandonata a se stessa, alla sua lussuosa decadenza, come una vecchia squillo una volta da assegno a quattro zeri, che oggi zoppica per fare marchette in strada in cambio di un assaggio di estasi che non dura mai abbastanza a lungo.
Speravo di non dover mai fare dietrofront.
Pensavo di aver chiuso il passato in un cassetto, a doppia mandata.
Purtroppo mi sbagliavo.” (1)

Davide “Smalley”, è un milanese originario del quartiere “Baggio”, naufragato ad Amsterdam dopo una breve deriva sullo sfondo dell'Europa dei tardi anni '90. Espatriato in seguito a una misteriosa colpa e ridotto a fare della fuga “uno stile di vita”(2), conduce un'esistenza anonima, divisa tra attività insulse, inutili passatempi e pranzi della domenica con l'unico amico Jan, finché, lo speciale fotografico di un quotidiano italiano -comprato più per ingannare la solitudine di un'umida giornata di ottobre, che per nostalgia o per vera curiosità- gli rivela la fine del “Laboratorio anarchico”, simbolo della sua tarda adolescenza milanese, dedicata all'hardcore-punk e allo stile “Straight edge” di Ian MacKaye e dei suoi “Minor Threat”.
Possibile che nessuno dei vecchi amici Drew, Lupo e Max, co-fondatori della band “Krakatoa” e compagni di mille lotte, abbia tentato di mettersi in contatto con lui?
Incredulo ma deciso, l'ex ragazzo ormai “alla soglia dei quarant'anni”, accompagnato dall'impenetrabile Jan, torna in città per fare i conti con il passato. Tra amori mai confessati, amicizie dimenticate e tradimenti subiti a metà, dovrà rendersi conto che alcune scelte non ammettono smentite, che certi conti non si possono saldare, e che “quello che brucia non ritorna”...

Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe scorrendo le note biografiche dell'autore(3), e in contrasto con scelte sempre più popolari nel panorama della letteratura di genere italiana (d'altra parte, la stessa appartenenza “al genere” di “Quello che brucia non ritorna”, è tutt'altro che assodata, e se non mi fossi già risolutamente espresso contro l'etichetta “post-noir”, me ne servirei ora senza esitazione...) e internazionale, la tecnica narrativa del romanzo, non è di derivazione cinematografica. Invano si cercano, qui, le sequenze ipercinetiche e costruite per pezzi brevi tipiche dell'action movie o del poliziesco di Hong Kong(4): la vicenda, riportata in prima persona, con oscillazioni verbali tra presente e passato prossimo, come per voler eliminare tutti i filtri tra personaggio e lettore(5) ha i ritmi pacati e regolari delle auto-narrazioni incentrate sull'interiorità. E, in effetti, è proprio il protagonista e narratore Smalley, a fare da soggetto e oggetto d'indagine(6), in un continuo rincorrersi di presente e passato, costruzione, scoperta e ricostruzione.
Pregevoli le ambientazioni contemporanee, ben costruiti e credibili (a dispetto delle biografie a volte eccessive(7)) i personaggi, e semplicemente perfette le ricostruzioni della “fine del movimento” e della defunta Milano anni '90. In fondo è proprio questo, "Quello che brucia non ritorna" (e chi non è convinto, vada a rileggersi l'incipit dopo aver concluso il romanzo): una dichiarazione di amore e d'odio per una città relitto, “un monumento, un gigantesco sepolcro” -la vecchia “Milano da bere”, diventata “Milano da pippare” e pronta a trasformarsi nella “Milano da imbalsamare”(8)-, accompagnata dalla profonda nostalgia per la fine di un'epoca, e il crollo di una serie di ideali.



(1)Matteo Di Giulio, “Quello che brucia non ritorna”, Agenzia X, Milano 2010, p. 5).
(2)Ivi, p. 6.
(3)Matteo Di Giulio, milanese, classe 1976 si è guadagnato una meritata notorietà grazie a pregevoli lavori di critica cinematografica.
(4)Il cinema resta comunque, come serbatoio di immagini da richiamare anche in maniera tematica (si pensi alla riflessione sull'amicizia virile nell'opera di John Woo), e al quale attingere, non tanto per agevolare lo scorrere della vicenda, quanto per conferire spessore e carattere ai personaggi, dotati gusti propri, e dunque di un personale immaginario di riferimento.
(5)Ma senza rinunciare a qualche piccolo passo indietro: in apertura al XVII capitolo, nel quale la vicenda sembra volgere al termine, il dialogo tra Smalley e Jan -pronti lanciarsi in un'azione folle pur di chiudere i conti col passato (e il fatto che le loro storie personali, ormai note, siano così diverse, sembra già anticipare la vanità del gesto)- è riportato in maniera indiretta, al chiaro scopo di mettere in ellissi elementi essenziali per l'anticipazione del finale, rafforzando l'effetto sorpresa.
(6)E questo vale sia dal punto di vista del lettore, che da quello del personaggio: se il protagonista, tentando di rimettere insieme i tasselli si trova a far chiarezza su se stesso, per buona parte del romanzo, è proprio la curiosità relativa alla sua misteriosa colpa passata a spingere il lettore ad andare avanti.
(7)Penso in particolare all'affascinante personaggio di Jan, il cui background cozza, almeno in parte, con il solido realismo dell'intreccio, riavvicinandosi agli schemi di una certa letteratura di genere.
(8)Ivi, p. 180.

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