Monday, March 29, 2010

Barbara Baraldi: Lullaby – La ninna nanna della morte


Italia, oggi.
La vita di un imprecisato paesino di campagna(1), scorre lenta e monotona, come quella dei suoi abitanti: studenti più o meno ribelli persi tra casa, scuola e uscite “clandestine”; giovani casalinghe divise tra commissioni, cura dei figli e lavoretti per arrotondare; solidi padri di famiglia, seri, impegnati, ma sempre pronti a concedersi uno spritz al bar “da Gianni”; vecchie mamme moribonde, ma poi sempre vive e fin troppo vitali; aspiranti scrittori e rappresentanti, baristi annoiati, pensionati sentenziosi ecc.
Ma quello che sembra un tranquillo universo paesano, sta per essere scosso da qualcosa che si agita sotto la lucida superficie: qualcosa di più eccitante della barista del nuovo "American Bar", e decisamente più pericoloso.
E prima che il sangue cominci ad arrossare le strade del paese, è solo questione di tempo...

È “un gotico rurale con qualche velato ammiccamento al soprannaturale, e sfumature noir che non guastano mai”(2), “Lullaby”, ultimo romanzo di Barbara Baraldi, recentemente proposto ai lettori italiani da Castelvecchi; e se a dichiararlo è l'autrice stessa, parlando -con mossa classicamente metanarrativa- per bocca del personaggio dell'aspirante scrittore Marcello (che dimostra così, se non grande sensibilità, almeno grande capacità auto-riflessiva) non ci si può certo azzardare a dissentire; tanto più che i caratteri del gotico rurale (in particolare, di marca americana) ci sono tutti: dall'amplificazione delle passioni (negative) dovuta alla “strettezza” dell'ambiente, alla mancanza di stimoli culturali, dalla tonalità “soprannaturale” assunta dagli “impulsi negativi” che originano la sanguinosa vicenda e dall'associazione (storicamente molto solida)(3) rigorismo morale-religioso e violenza, al lento risolversi del già citato elemento sovrannaturale(4) in un accadere “umano, troppo umano” (e anzi, verrebbe da dire “familiare, troppo familiare”); il tutto espresso attraverso una tecnica mista che incrocia scelte classiche(5) e trovate post-moderne(6), assoluta cura dei dialoghi e brani espressi in discorso indiretto libero(7).
Anche sul versante del noir (che l'autrice riduce a un insieme di “sfumature”), il romanzo funziona meravigliosamente: la storia è perfettamente congegnata, gli indizi sepolti nell'intreccio bastano a farsi un idea della soluzione della vicenda (ma si resta pur sempre con l'incertezza), la tensione regge -a dispetto del ridotto numero di delitti-, fino all'impennata finale.
Il ritmo è continuo, la narrazione è fluida, avvincente, limata, “giovanile”, ma sintatticamente precisa. Ed è proprio su questo che poggia la perfetta riuscita di “Lullaby”: sulla capacità dell'autrice di costruire una narrazione matura (tematicamente e stilisticamente), mantenendo un rapporto profondamente empatico, e dimostrando una perfetta comprensione dei tormenti giovanili della protagonista; così, in un panorama di scritture finto-giovanili sempre più omologate e sempre meno sopportabili, i giovani tornano "leggibili", e la bistrattata letteratura di genere si riappropria di uno stratagemma critico classico, ma ancora più che efficace: la frattura tra lo sguardo "puro" degli adolescenti e la vuota ipocrisia, la falsità dei valori del mondo "adulto".

Il romanzo “Lullaby – La ninna nanna della morte”, di Barbara Baraldi è edito da Castelvecchi.



(1)Paesino che, in virtù delle poche battute di dialogo espresse in dialetto, si tende a collocare in Emilia.
(2)Barbara Baraldi, “Lullaby – La ninna nanna della morte”, Castelvecchi, Roma 2010, p. 17.
(3)Questo elemento critico nei confronti della violenza indissolubilmente connessa ad ogni eccesso religioso risalta anche nella breve flashback relativo a un tentativo di esorcismo ai danni di uno dei protagonisti...
(4)L'elemento gotico, nell'accezione comune del termine, è piuttosto da ricercare nell'uso (o riuso) di oggetti -immagini, citazioni horror, scampoli di brani musicali, che vanno dai Cure (loro il pezzo “Lullaby” che dà il titolo all'opera) a "Il Corvo", passando per i Bauhaus di "Bela Lugosi's Dead" ecc.- tratti dall'immaginario “dark” (termine tutto nostro per un genere che, all'estero, si chiama appunto “gothic”), al quale l'autrice, adattandosi (e senza fatica) al gusto della giovane protagonista, fa riferimenti continui.
(5)Scelte che vanno dalla reticenza al depistaggio, e alla costruzione per pezzi brevi interrotti in maniera da mantenere sempre alto il livello della tensione, tanto per citare gli esempi più ovvi.
(6)Alternanza di tre punti di vista, ognuno dei quali espresso un po' in prima e un po' in terza persona, e con focalizzazione variabile.
(7)Il discorso indiretto libero è utilizzato dall'autrice per risolvere i momenti di particolare tensione emotiva: si prenda, per esempio, un brano come “Cammino sotto la falce di luna. Cammino con il cielo nero sopra la testa. Nessuna stella, solo quella polare, grande e lucente come una pietra preziosa. Forse il libro che ho cominciato a scrivere non terminerà mai. Penso e ripenso fino a spremermi dentro, ma quando mi ritrovo di fronte alla pagina bianca del pc, le parole che mi frullavano in testa scompaiono. È come se si smembrassero, perdessero di consistenza. Diventassero trottole indemoniate che sbattono l'una contro l'altra. Rumore sordo nelle orecchie. Mi sembra di scoppiare e allora devo alzarmi e accendermi una sigaretta. Che cosa mi manca?” (Ivi, p. 164), che esprime tutta la lacerazione interiore, l'impotenza del “cinico” e “freddo” (solo apparentemente, va da se') Marcello, senza neanche il bisogno di tirarne in ballo la tediante (ma forse “castrante” sarebbe più appropriato) situazione familiare.

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Wednesday, March 24, 2010

Enrico Pandiani: Troppo Piombo

Pubblicata oggi, sul Web Press Milano Nera, una mia recensione del romanzo "Troppo Piombo", di Enrico Pandiani.
(http://www.milanonera.com/?p=5575)

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Monday, March 15, 2010

Gordon Houghton: L'apprendista


Di colpo ero stato travolto dalla consapevolezza che l'esistenza non era quella visione precisa e tranquilla che l'esempio dei miei genitori mi incoraggiava a credere: vedevo il futuro non come l'inevitabile estensione della mia fanciullezza incondizionatamente felice, con i suoi principi morali e soluzioni semplici, ma come una terrificante idra che emergeva da una nebbia fitta. Responsabilità, sessualità, timidezza, affettazione, potere, autodeterminazione, caducità: queste parole non erano più concetti astratti trovati nei libri che leggevo, ma una creatura disgustosa con sette teste da rettile, dalla quale non sarei mai riuscito a sfuggire...”(1)


Tempi d'oro per i morti? Tutt'altro: da quando Ade, vecchio assistente di “Morte”, è stato ritrovato sventrato, le viscere rovesciate in un fosso ai margini di una strada rurale, e i quattro cavalieri dell'apocalisse battono i cimiteri in cerca di un rincalzo (pescando a caso numeri identificativi con l'aiuto dell'“empia lotteria”) a nessuno è dato di riposare in pace...E, anche dal punto di vista dei quattro agenti dell'“agenzia” - Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte-, affiancati dal giovane “Rissa”, non si può dire che le cose vadano gran che bene... Altro che “amabili resti”: nessuno dei sei candidati resuscitati per una “settimana di prova” si è dimostrato all'altezza del compito affidatogli. Si aggiunga a questo che l'agente Morte si muove ormai stanco e pieno di dubbi sullo sfondo della Oxford di fine anni '90, e che la “terminazione” di Ade, è opera di uno degli uomini dell'agenzia, e si avrà una vaga idea dell'antefatto.

Per completare il tutto, si getti al centro della vicenda un settimo candidato d'eccezione: il cadavere semi-martoriato di un detective insicuro, imbranato, voyeur e pieno di complessi che non ricorda nulla -o quasi- delle circostanze della sua morte; uno che tutto ha in mente, meno che dare una mano ai cavalieri dell'apocalisse nel loro devastante incedere; uno zombi dotato di forze fisiche appena sufficienti per andarsene a spasso, ma abbastanza acuto da far luce sulla misteriosa morte di Ade, e senza una vera e propria indagine - insomma, una sorta di moderno Dupin dell'oltretomba, nutrito a noir classici e filmetti porno, già morto, eppure in pericolo(2), impegnato nello svelamento di un "doppio" mistero...

Seconda opera dell'inglese Gordon Houghton(3), pubblicato in Inghilterra nel 1999 ma proposto solo oggi ai lettori italiani, “L'apprendista” concilia la costruzione lisergica(4) del Brautigan di “Sognando Babilionia” con l'irriverenza alcolico-surreale e l'occhio meta-narrativo del Bukowski di “Pulp” , passando con disinvoltura dalle citazioni kafkiane alla stesura di finti contratti con la morte, e muovendosi in una cornice cinica, follemente comica, ma non per questo priva di riferimenti alla realtà(5).

Romanzo nero e ironico, che si serve dello stile narrativo tipico della “Scuola dei Duri” (prima persona e passato remoto, a dispetto dei due diversi “tempi” raccontati) per costruire una vicenda pulp tanto piena di elementi metaforici(6) e velate (ma amare) riflessioni esistenziali(7) da vanificare ogni tentativo di sintesi (immancabilmente destinato a risultare una piatta elencazione), “L'apprendista”, di Gordon Houghton, è edito in Italia da Meridiano Zero.



(1)Gordon Houghton, “L'apprendista”, Meridiano Zero, Padova 2010, p. 216, traduzione di Stefania Sapuppo.
(2)Sì perché, in caso di inefficienza, o mancato “rinnovo del contratto”, l'apprendista rischia la “terminazione” o il confinamento nel misterioso “deposito”...
(3)Gordon Hougton, inglese, classe 1965, è autore dei romanzi “The Dinner Party” (1998) e “The Apprentice” (1999; Trad. It. “L'apprendista”, 2010). Si è avvicinato alla scrittura subito dopo il college, collaborando con la rivista Zzap64, dedicata al Commodore64 - consolle alla quale dichiara di essere tutt'ora legato (la sua tribute-page è visibile qui). A leggere il suo romanzo, pare che qualcosa del l'inarrivabile creatività e del polveroso, rumoroso, impareggiabile divertimento che caratterizzavano i vecchi, fragilissimi giochi (in cassetta) del Commodore, sia rimasto nel suo stile narrativo...
(4)Da un punto di vista tematico, ma anche stilistico.
(5)Tant'è vero che intorno a pagina 70 -momento che segna l'entrata in scena dell'intreccio hard boiled- cominciano ad affacciarsi sullo sfondo le ombre dei realisti James M. Cain e Dashiell Hammett...
(6)Due tra gli esempi più lampanti: il “contratto in prova” come metafora -non solo politica- della precarietà, e la comica ambizione dell'aiutante “Rissa”.
(7)Essenziali, tanto per limitarsi agli esempi più ovvi, i temi della “crescita” e dell'ineluttabilità della morte.

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Wednesday, March 10, 2010

Luigi Romolo Carrino: Pozzoromolo




“Ho trentanove anni e sono una donna. Il mondo è una donna maltrattata e la vita è un uomo travestito.” (1)

Gioia ha quasi quarant'anni, solo una quindicina dei quali passati a solcare le vie del mondo. E di quei quindici anni di “libertà”, ricorda, o vuole ricordare, ben poco: una madre sempre più assente, l'inutile solerzia di alcuni parenti, un tentativo di trasferimento andato in fumo, la violenta repressione dei primi “dubbi” identitari, la vecchia casa sotto la quale -secondo i racconti della nonna-, il diavolo avrebbe atteso, in fondo a un pozzo, la visita degli uomini, per renderli folli; un “fidanzamento” finito male, la breve, dolorosa parentesi di un tentativo di fuga.
Per il resto, è rimasta rinchiusa in un “Ospedale Psichiatrico Giudiziario”, cercando di recuperare il ricordo di una misteriosa colpa rimossa.
Ma non c'è niente di giusto nella sua detenzione: non solo perché da alcuni “mali” non si guarisce, ma anche perché ci sono modi migliori per espiare le proprie colpe...
E, poi, Gioia, a sentirsi in colpa per il crimine che deve aver commesso, e che non ricorda, non ci riesce proprio, e in cuor suo sa che, se anche arrivasse a ricostruirne i contorni, le cose non cambierebbero.
E intanto le giornate, i mesi, gli anni, passano monotoni tra brevi dialoghi con infermieri scontrosi, violenti, o (raramente) concilianti, sogni, ricordi, piccole rivelazioni, confronti con i medici e nuove, inutili, terapie...

Con un unico, lungo, discorso indiretto libero -non un monologo, ma un dialogo tra la protagonista e la sua memoria torturata (e torturante)- che procede, come tutte le narrazioni orali, per iterazione e accumulazione, un brandello dopo l’altro, verso l’auto-comprensione, e nel suo accumulare tira in ballo tutta una serie di immagini, canzoni, slogan, elementi presi direttamente dal linguaggio e dall'immaginario pubblicitario(2), Luigi Romolo Carrino ricostruisce l'inquietante storia di Gioia.
Ma non è tanto (o non solo) la biografia di Gioia a fare da fulcro al racconto, quanto i vari -più o meno vani- tentativi di recupero e ricostruzione di un'autonarrazione interrotta: "Pozzoromolo" è la cronaca di un'anabasi, una discesa negli “inferi” di un subconscio pieno di cicatrici, che sembra -alla protagonista- passo inevitabile per un recupero del se', ma che si risolve con la definitiva "caduta in un pozzo", perché, proprio come nelle storie della vecchia nonna, chiunque arrivi a incontrare il demone è irrimediabilmente destinato a rimanere folle...

Seconda prova narrativa di Luigi Romolo Carrino, e romanzo tra i più importanti usciti in Italia nel 2009, "Pozzoromolo" è segnato da due forze uguali ed opposte: una centripeta, che spinge il lettore nel bel mezzo del racconto, grazie alla coincidenza del suo punto di vista con quello del narratore(3), e una centrifuga, che lo riporta al di fuori in virtù dello sforzo interpretativo. Così, grazie alla scelta dell’autore di mantenere il narratore sempre al limite tra il “dire tutto come viene”, e il “perdere il filo” (e/o il senso) del discorso, il lettore-interprete riguadagna uno spazio di fruizione anche razionale, altrimenti potenzialmente negato dal forte coinvolgimento emotivo.

Il romanzo "Pozzoromolo" di Luigi Romolo Carrino è edito da Meridiano Zero.


(1)Luigi Romolo Carrino, "Pozzoromolo", Meridiano Zero, Padova 2009, p. 189
(2)Questi elementi funzionano come indicatori cronologici (es. gli Anni ’80 della “Girella” e di "L’estate sta finendo") e "geografici", collocando la storia nel mondo “vero” del lettore, e nel contempo svelano l’inconfessabile (e inconfessato), intervenendo dove le parole finiscono.
(3)Il racconto, all’interno del quale l’atto dello scrivere inteso come ricerca linguistica unisce e divide i due narratori –quello extradiegetico, poeta ancor prima che scrittore, e quello intradiegetico, “raccontatore orale” e autodidatta da poco approdato alla scrittura-, scorre sulla pagina come nella mente del protagonista, ma con un piccolo scarto temporale: espressioni ripetute, tipiche dell’affabulare orale, come “c’era, c’era, ora mi ricordo che c’era, c’era una volta…” (cfr., per esempio pp. 151), oltre a evocare la distanza degli eventi narrati dal tempo della narrazione indicano uno spostamento tra il momento del ricordo e quello della sua stesura. Questa distanza, anche minima, smentisce l’apparente “immediatezza”, che sembrava garantita dalla forma espositiva “spontanea” e “non programmata”...

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Wednesday, March 03, 2010

Intervista Guano Padano



Pubblicata, su Sugarpulp, una mia intervista a Alessandro "Asso" Stefana, chitarrista della band Guano Padano.
(http://www.sugarpulp.it/critica/guano-padano-lintervista)

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Monday, March 01, 2010

Paolo Roversi: L'uomo della pianura


«Ammazzare col coltello è sempre personale, come il bacio alla francese. Ci si sporca, certo, ma col ferro non mi sono mai trovato a mio agio. Fa rumore, è distaccato; non c'è contatto. Non senti la vita che esce fuori dalla tua vittima.»(1)

Milano, fine anni '70; finito in carcere per un drammatico errore giudiziario, un ragazzo qualunque, -uno che non è mai stato uno “stinco di santo”(2), ma del tutto innocente per quanto riguarda il reato contestatogli- si trasforma in un temibile bandito.
Uscito da San Vittore, l'“università del crimine”, con la momentanea approvazione di due pezzi grossi della mala, il ragazzo comincia a mettere a ferro e fuoco le strade della Milano di Cavallero e Vallanzasca, di Lutring, Epaminonda e Turatello; la scerbanenchiana “Milano calibro 9”; quella di “Stazione centrale ammazzare subito” e de “La mala ordina”. I suoi contemporanei lo consoceranno come “Hurricane”.

Capo di Ponte Emilia -ultimo baluardo lombardo prima del confine emiliano e paese d'origine di Enrico Radeschi-, oggi.
Quando il corpo senza vita della giovane Giulia viene ritrovato -intriso di sangue, “riverso su un giaciglio di paglia, vicino a una mangiatoia”(3), la gola squarciata da un kirpan- in una delle stalle dell'azienda agricola paterna, la popolazione, sobillata dal bieco Ghezio, politicante di un partito che pretende di “discendere dai celti”, non ha dubbi: il colpevole è Vikram Singh, Sikh impiegato come mungitore, con il quale la ragazza aveva allacciato una chiacchierata relazione.
I sospetti dei paesani sembrano confermati dall'improvvisa scomparsa dell'indiano; ma mentre gli inquirenti, caldamente invitati ad “arrestare Sandokan” da un questore tutt'altro che illuminato, si dedicano alle indagini, un'automobile con i sedili sporchi di sangue viene ritrovata, abbandonata, subito fuori dal paese...


“L'uomo della pianura”, ultimo romanzo del ciclo dedicato al giornalista e hacker Enrico Radeschi, è costruito secondo un'alternanza di brani che ricorda il montaggio cinematografico incrociato, alludendo così, fin dai primi paragrafi, al ricongiungimento finale(4) delle due vicende.
Alla momentanea opposizione tra i due casi (e tra i due piani temporali), fa eco l'alternanza dei registri linguistici: da un lato il racconto di Hurricane, espresso in prima persona, con un lungo discorso indiretto libero che ricorda le voci fuoricampo di tanti flashback cinematografici, dall'altro le avventure di Radeschi, riportate in terza persona, con focalizzazione esterna, uso del discorso diretto e toni lampantemente ironici, che si spingono, qua e là, fino alla satira (politica, come nel caso del già citato Ghezio, o di costume, come nell'incontro-scontro del giornalista con l'eccentrica scrittrice “Santina Croce”...). A questa seconda opposizione, stilistica, assolutamente centrale e strettamente funzionale alla costruzione di precisi effetti narrativi(5), se ne aggiungono altre, tematiche -dall'alternativa città/paese a quella uso/rifiuto della tecnologia (Radeschi e Delia/Hurricane), cinismo/idealismo (Radeschi/Delia) ecc.- che arricchiscono un romanzo misurato, privo di punti morti, spesso piacevolmente ironico, straripante di citazioni(6), popolato da personaggi simpatici e ben costruiti(7).
Un romanzo che si riappropria della mitologia legata alla “mala” italiana (e lo fa con garbo e cautela), per chiudersi, poi, con un inatteso, amaro, finale, pienamente coerente con le regole del noir classico...

Il romanzo “L'uomo della pianura”, di Paolo Roversi, è edito in Italia da Mursia.



(1)Paolo Roversi, “L'uomo della pianura”, Mursia, Milano 2009, p. 28.
(2)Ivi, p. 17
(3)Ivi, pp. 22-23.
(4)Avviene grazie a quel meccanismo “popolare” del riconoscimento dell'dentità celata, che Propp chiama "agnizione".
(5)L'espressione fredda, calcolata, del tutto priva di coloriture emotive “positive”, che caratterizza la storia di Hurricane, restituendo al lettore l'idea della banalità del male, impedisce (o dovrebbe impedire) ogni possibile identificazione, smorzando il fascino di un personaggio dai chiari tratti eroici.
(6) Da Scerbanenco, la cui onnipresenza si fa palpabile nei personaggi di “Mascaranti” e “Lamberto Duca” a Ledesma, da Montalbàn a Izzo, da Bunker a McCarthy, da Gutierrez a Carlotto, al Lansdale di “Rumble Tumble” (evocato attraverso l'inserimento dell'armadillo Gatsby), le citazioni e i rimandi metatestuali di “L'uomo della pianura” non si contano, e, d'altra parte, non sarà un caso, se l'autore è stato soprannominato “Lo Scerbanenco postmoderno”...
(7) Impossibile non menzionare almeno il protagonista Enrico Radeschi -ultima declinazione di quell'eroe tardo-adolescenziale che risale, per tradizione, al Tonio Kroeger e che finisce sempre (giustamente) per conquistare il lettore-, il suo dipendente Diego Fuster, le protagoniste femminili Delia e Carla, e gli esilaranti Betassa e Bellotti.

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