Tuesday, October 27, 2009

Umberto Lenzi: Terrore ad Harlem


Pubblicata, sul portale SugarPulp (http://www.sugarpulp.it), una mia recensione del romanzo Terrore ad Harlem di Umberto Lenzi.
La recensione è leggibile qui.

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Sunday, October 18, 2009

Simone Sarasso e Daniele Rudoni: United We Stand

12 Gennaio 2013; gli “inviti” a smantellare gli armamenti atomici rivolti dal presidente americano al governo nordcoreano, si trasformano in un ultimatum. L’America minaccia l’intervento armato.
I cinesi ribattono: ogni azione militare americana in Corea sarà interpretata come una dichiarazione di guerra.
27 febbraio; pur senza l’appoggio dell’Unione Europea, gli americani attaccano Pyongyang.
28 febbraio; la città di Anchorage, Alaska, è rasa al suolo dall’atomica cinese.
8 aprile. A Roma, la candidata democratica Stella Ferrari festeggia, con i suoi elettori, la nomina a presidente del consiglio. La rivincita delle sinistre? Forse no; prontio all'azione in caso di vittoria dei "rossi", un manipolo di uomini in armi si è introdotto a Palazzo Chigi e, per assumere il potere, ha eliminato i rappresentanti dei vecchi, “molli”, governi di destra. È il primo colpo di stato dell’era repubblicana, l’atto inaugurale di una nuova dittatura militare.
In poche ore, Roma, Napoli, Torino e Milano si ritrovano in fiamme.
Miracolosamente scampata alle ricerche e ai rastrellamenti voluti dal “secondo duce”, Stella Ferrari, simbolo vivente della nuova resistenza, si rifugia in montagna, nella casa ereditata dai genitori partigiani, e, mentre il popolo si organizza per il contrattacco, si ritrova a fare i conti con il suo passato…

Ambientata in un futuro vicinissimo(1), “fantascientifico” o “fantapolitico” (ma, ahimé, non troppo fantasioso o inverosimile…) United We Stand, prima graphic-net-novel italiana(2), nasce dall’incontro di Simone Sarasso(testi) e Daniele Rudoni(matite), con il progetto di un film pubblicizzato e mai realizzato(3): l'omonimo United We Stand. Stimolato dal semplice titolo –una vera e propria trama, il fake-movie di Mattes, non l’ha mai avuta…- Sarasso ha costruito una sceneggiatura-romanzo di circa 100 pagine(4) che risulta, nella traduzione fumettistica, leggibile in maniera indipendente, ma piena di rimandi alla “trilogia sporca dell'Italia" (il trittico è ancora in fieri: sono usciti, per ora, i primi due volumi, Confine di Stato e Settanta), rispetto alla quale si manifesta come futuro “possibile”.
Scritto con la consueta maestria nella stesura del dialogo (d’altronde la graphic novel si regge proprio su questo...) e la tecnica mista alla quale i lettori di Sarasso sono ormai abituati (ma l'inserimento di testi di genere diverso -giornali, diari, telegiornali ecc.- risulta meno "spiazzante", più convenzionale all'interno di un fumetto...); disegnato con pochi tratti (che bastano, però, a conferire alle figure, tutte curate fino ai minimi particolari, grande spessore ed inatteso realismo) dall’ottimo Daniele Rudoni, United We Stand, grafic-net-novel dal chiaro taglio cinematografico(5), si nutre di una “deformazione” della realtà, di una “‘mistificazione’ del conosciuto”(6) che, lampante fin dalle prime pagine (dove i leader del governo uscente mostrano una fisionomia ben nota ai lettori...), crea particolari effetti metatestuali (si direbbe quasi un manifesto visivo di quella poetica sarassiana che propone il recupero dei materiali più vari -dal cinema d'intrattenimento al fumetto, dalla musica leggera alla letteratura di genere, alla TV con la sua recente tendenza seriale- e il loro riuso in narrazioni per il resto fortemente realistiche) nel cameo dell'autore: prestata (con trovata hitchockiana) la sua fisionomia al personaggio di “Talento”, braccio destro del bandito Ettore Brivido (già noto ai lettori del riuscitissimo Settanta), Sarasso fronteggia, in un serrato interrogatorio, Maurizio Merli, indimenticabile icona del cinema poliziottesco.

Frutto della collaborazione di un romanziere che non ha mai nascosto il suo amore per il fumetto(7) ed un fumettista di prestigio (Rudoni, classe 1977 è colorista per Marvel America e insegnante di "Tecnica del fumetto" all'Accademia delle Belle Arti di Novara), United We Stand è una prova elegante, innovativa, credibile, avvincente, perfettamente riuscita.

La graphic novel United We Stand di Simone Sarasso e Daniele Rudoni, è edita in Italia da Marsilio.



(1)L’anno 2013, date le assurde preoccupazioni relative al 2012 e alla famigerata profezia dei Maya, è certamente una scelta più che appropriata per una narrazione dai toni marcatamente post-apocalittici.
(2)L’idea centrale di United we stand è assolutamente interessante: al racconto principale, relativo al colpo di stato e pubblicato in volume, si intrecciano una serie di narrazioni tangenziali, firmate da nomi di prestigio della letteratura “di genere” italiana (si, lo so, la definizione è passata di moda, ma per me, che della passione per il “genere” ho fatto motivo di vanto, sopprimere questa ormai “obsoleta” etichetta è un compito piuttosto arduo…), scaricabili (gratuitamente) in formato pdf dal sito http://www.unitedwestand.it/. Grazie a questa scelta, l’universo parallelo di United We Stand, raccontato per ora dalle voci di S. Di Marino, P. Roversi, Kai Zen, E. Maggi, A. Briganti, P. Franchini, JP Rossano, M. Di Giulio, L. Ghinelli, D. Mantovani, A. Talia, si ritrova al centro di un processo di arricchimento potenzialmente infinito.
(3)Nel 2005, manifesti e locandine del film (che, stando alla campagna pubblicitaria, avrebbe dovuto essere interpretato da due ignari Ewan McGregor e Penelope Cruz) hanno invaso le strade delle maggiori capitali europee, e gli spazi pubblicitari di importanti riviste e quotidiani. L’intera campagna era, in effetti, frutto e oggetto di una riflessione d’artista sulla pubblicità e sul sistema della comunicazione. La documentazione fotografica della campagna è stata esposta nel 2005 all’interno della “Postmasters Gallery” di New York. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito degli artisti Eva e Franco Mattes (http://www.0100101110101101.org/home/unitedwestand/intro.html)
(4)Cfr. Daniele Rudoni, Sedici noni: La matita e la macchina da presa, p. 171, in Simone Sarasso e Daniele Rudoni, United We Stand, Marsilio, Venezia 2009, pp. 171-172.
(5)Per le questioni tecniche relative alla costruzione dell’effetto cinematografico, si rimanda al già citato Daniele Rudoni, Sedici noni: La matita e la macchina da presa.
(6)Ivi, p. 172.
(7)Già in Turkemar (racconto d'esordio di Sarasso, ripubblicato nel 2007 come romanzo breve per i tipi di Effequ) la biografia di Fred Buscaglione incontrava suggestioni -ma, anzi, vere e proprie citazioni- da fumetto marveliano.

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Tuesday, October 13, 2009

Roberto Saporito: Carenze di futuro

Finito sul lastrico dopo aver perso al gioco una discreta fortuna in beni mobili e immobili, l’unico erede di una importante famiglia alto-borghese della provincia piemontese si ritrova costretto a fuggire dai “fantasmi della sua stupida vita precedente”(1): Pacifico e la sua banda, un gruppo di temibili strozzini decisi a prenderlo, “anche solo per tagliargli tutte le dita della mano destra”(2), e dare, così, il buon esempio. Aiutato da Bruno e Cesare, gli unici veri amici rimasti, l’uomo, privo di ogni legame da quando moglie e figlia se ne sono andate, decide di lasciare Torino, gli ultimi averi -qualche migliaio di franchi in contanti- infilati in una cappelliera rigida, e nascondersi per qualche mese assumendo l’inutile(3) mansione di custode in un residence nel sud della Francia; arrivato sul posto, scopre, però, di aver fatto male i suoi calcoli: gli uomini di Pacifico sono già sulle sue tracce, e forse neppure una fuga sul fiume, a bordo della chiatta della nuova compagna di viaggio Sophie -una ragazza dall'aria incomprensibilmente triste che rifiuta di fornirgli la benché minima informazione sul suo misterioso passato- potrà sottrarlo all'ira dei suoi inseguitori e agli schiaffi del destino…

Costruito con l’alternanza di capitoli narrati in prima persona dal protagonista, (melanconicamente ritmati da una prestigiosa colonna sonora fatta di pezzi new-wave e atmosferiche torch-songs a tinte fosche; Tindersticks, Cousteau, Nick Cave e i "calmi" Einstürzende Neubauten di Sabrina, per limitarsi a qualche esempio), e brani in terza persona che rappresentano, in focalizzazione esterna, il punto di vista degli inseguitori; aperto ad una piacevole, imprevista vena giovanilistica –si fa strada, o diviene percettibile dietro la voce del personaggio, a partire dall’entrata in scena della professoressa Simone, e resta palpabile fin in fondo(d’altronde, se il protagonista si è ridotto alla condizione di “carenza di futuro” nella quale il lettore lo coglie, è proprio in quanto incapace di crescere…), conferendo al romanzo i suoi toni piacevolmente “sciolti”, colloquiali in maniera azzeccata e naturale-, Carenze di futuro, ricorda, da un punto di vista puramente esteriore(4), Piccolo Blues di Manchette(5), ma se ne allontana per questioni teoriche di importanza cruciale: se Gerfaut, indimenticato personaggio manchettiano, ritorna, al termine dell'avventura, alla sua calma e tranquilla vita borghese, il protagonista di Saporito è colto, sul finale, nel bel mezzo di un viaggio volutamente fuori dai "canali consueti", verso la Parigi mitica dei sogni tardo-adolescenziali; la città che ha ingoiato la bella e sensuale Simone, non il luogo visitato in viaggio di nozze con la ex moglie Francesca…

Lucido, ironico, rapidissimo, ben scritto e imprevedibile (6), Carenze di futuro, terzo romanzo di Roberto Saporito, già autore di Anche i lupi mannari fanno surf, Millenovecentosettantasette, fantasmi armati, e delle antologie di racconti Harley-Davidson. Racconti e H-D Harley Davidson, Deserti e nuovi vampiri, è edito da Zona.



(1)Roberto Saporito, Carenze di futuro, Arezzo 2009, p. 88.
(2)Ivi, p. 79.
(3)La storia si svolge in periodo di bassa stagione.
(4)Volendo riassumere la trama alla maniera di certo strutturalismo a buon mercato, si potrebbe fare di Carenze di futuro il racconto di un borghese improvvisamente privato di tutte le sue certezze e rituffato nel bel mezzo del mitico "stato di natura" (dai risvolti chiaramente hobbesiani...); ovviamente, questa eccessiva generalizzazione crea una classe inutile, talmente ampia da includere un po' di tutto, dal già citato Piccolo Blues a Cane di Paglia di Peckinpah e persino Robinson Crusoe di Defoe (e la cosa è curiosa, perché Saporito costringe il suo protagonista ad "adattarsi" e "vivere" -se così si può dire per una permanenza brevissima- non su un'isola, ma su una spiaggia deserta, producendo effetti di colta comicità).
(5)Anche nella sua rilettura echenoziana: con Un anno, il romanzo di Saporito ha infatti in comune la scelta “ciclistica”… (Si veda Jean Echenoz, Un anno, Einaudi, Torino 1998, recensito su queste pagine il 14 agosto 2008 http://nonsolonoir.blogspot.com/2008/08/l-jean-echenoz-un-anno.html). Manchette è, comunque, l’unico autore esplicitamente citato: a pagina 38 si legge, infatti: “Il noir è un genere morale. È la grande letteratura morale della nostra epoca, e non lo dico io, lo dice Jean-Patrick Manchette”.
(6) L’autore spende spunti narrativi “con liberalità”: nel corso di Carenze di futuro, ci si imbatte in almeno un paio di sub-plots importanti abbastanza da servire come trama per altrettanti romanzi brevi (penso, oltre che al "misterioso" -in realtà noto al lettore perché ben tracciato, con pochi, sapienti tocchi- passato di Sophie, alla disavventura vissuta al fianco di Cesare, personaggio interessantissimo, che meriterebbe di ritrovarsi al centro di un possibile seguito…), e la narrazione, perdendo il suo carattere lineare -l'intreccio è, o almeno dovrebbe essere, semplice-, ne risulta positivamente arricchita.

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Saturday, October 10, 2009

NonSoloNoir saluta Stuart Kaminsky

NonSoloNoir saluta lo scrittore, saggista e sceneggiatore Stuart Kaminsky; secondo le dichiarazioni della figlia Tasha e dalla moglie Enid Perll, lo scrittore, appena settantacinquenne, si sarebbe spento “pacificamente” nella giornata di ieri, 9 ottobre 2009.
Autore, dal 1977 (anno di uscita di A bullet for a star), di almeno tre noti cicli di romanzi –quello di Toby Peters (in Italia Assassinio sul sentiero dorato e Non fate arrabbiare i vampiri, entrambi per Einaudi), quello dell’ispettore Rostnikov della polizia di Mosca (Morte di un dissidente, Alacràn e Sangue e rubli, Hobby & Work) e quello di Lew Fonseca (Cattive intenzioni, Midnight pass e Omissione di soccorso, tutti Alacràn)-, e impegnato, negli ultimi anni, in una serie di romanzi ispirati alla serie televisiva C.S.I (in Italia, Morte in inverno, C.S.I. N.Y., Sperling e Kupfer), Kaminsky si è occupato anche di cinema, firmando saggi di prestigio (su Ingmar Bergman, Gary Cooper, sui generi cinematografici ecc.), e collaborato con Sergio Leone (dialoghi e sceneggiatura di C’era una volta in America) e Don Siegel (Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo); con lui se ne va una voce forse poco nota(verrebbe da dire "stranamente poco nota", data l'influenza indubbiamente esercitata sugli autori della generazione successiva), ma sicuramente cruciale, della “vecchia scuola” del nero americano.

A seguito, ripubblichiamo la recensione del romanzo Assassinio sul sentiero dorato, già apparsa su queste pagine lo scorso 6 marzo.

“L’ascensore si fermò al nono piano con un cigolio. Decisi che avrei messo il mio uomo alle strette con qualcosa di molto vicino alla verità. Magari l’avrei fatto arrabbiare al punto che si sarebbe lasciato sfuggire qualcosa. Non riuscivo a immaginare la scena di me che usavo la forza contro un nano, ma probabilmente ne sarei stato capace. Forse sarei riuscito a spingerlo a farmi arrabbiare quanto bastava.” (1)

1940. Toby Peters, ex poliziotto dell’LAPD, ex buttafuori ed ex responsabile della sicurezza per conto della “Warner Brothers”, si guadagna da vivere come investigatore privato risolvendo casi di quart’ordine. Per risparmiare sulle spese, ha per ufficio una stanza in sub-affitto nello studio di un’improbabile dentista. Quando Louis Mayer, proprietario della notissima casa di produzione cinematografica “Metro-Goldwyn-Mayer” lo convoca nei suoi studios per affidargli le indagini sulla morte di una comparsa, Peters accetta senza esitazione: quello che non sa, è che il suo nuovo datore di lavoro lo ha scelto sperando che facesse pressioni sul fratello Phil (membro dell'LAPD ufficialmente incaricato delle indagini), per convincerlo a mantenere il silenzio sulla faccenda. Ma il signor Mayer non sa che i rapporti tra Toby Peters e suo fratello non sono dei migliori…
Impegnato nelle indagini sulle morte di un nano travestito da “marameo”, ritrovato cadavere, a più di un anno dalla fine delle riprese, sul set del film Il mago di Oz di Victor Fleming, e costretto ad agire senza l'aiuto delle autorità, lo scalcagnato detective si troverà nel mirino di una serie di maldestri gangster, e, prima della soluzione del caso, (risolto anche grazie alla collaborazione di un aiutante d’eccezione: il padre dell’hard boiled Raymond Chandler) salverà la vita alla giovane Judy Garland, vero e proprio simbolo dell’innocenza nella Hollywood degli anni ’40…

Romanzo breve, ben scritto (anche attraverso un recupero del lessico tipico dell’hard boiled delle origini che ahimè, in parte si perde in una traduzione non sempre all’altezza del testo), surreale, politicamente scorretto come lo si poteva essere solo negli anni '40, follemente ironico, ma anche piuttosto prevedibile nello svolgimento strettamente giallo(2), Assassinio sul sentiero dorato trae buona parte del suo fascino dalla dimensione meta-narrattiva, dal riuso, in funzione d’omaggio, di modi, toni, personaggi, situazioni, soluzioni narrative ed escamotages tipici del noir degli albori (3).
Gli aspetti meno credibili del genere (infallibilità e quasi immortalità, irresistibile fascino dell’eroe ecc.) sono qui deformati, secondo una certa tendenza del noir post-moderno (4), con un fare farsesco e vivace, come a voler correggere il difetto di realismo attraverso l’esagerazione dei tratti comici e incredibili.

Romanzo noir che coniuga La sorellina di Chandler con l'ironia (che deforma l'affresco storico, ma senza riuscire a cancellarlo) dei Racconti di Pat Hobby di F. Scott Fitzgerald, il surrealismo di Brautigan con la durezza di Hammett, Assassinio sul sentiero dorato, di Stuart Kaminsky, edito in Italia da Einaudi, è Il libro che ogni filologo, amante del genere e feticista del cinema classico dovrebbe avere nella sua libreria.




(1) Stuart Kaminsky, Assassinio sul sentiero dorato, Einaudi, Torino 2005, p. 115.
(2) Le trovate surreali abbondano, ma la trama gialla, costruita attraverso un collage di clichés d’epoca risulta, per gli appassionati del genere, piuttosto prevedibile.
(3) Pilastri della moderna narrativa poliziesca quali Hammett, Chandler, Latimer, Mickey Spillane (anche nella trasposizione cinematografica: l’ambiente della palestra riporta alla mente il club sportivo di Un bacio e una pistola di Robert Aldrich) sono qui riletti con gli occhi del moderno scrittore-lettore, evidentemente sofferente, come molti fanatici del genere, di una bulimia basso-letteraria che ha trovato il suo luogo elettivo nell’America degli anni ‘40/’50, segnata dal fenomeno culturale della letteratura pulp.
(4) Pensiamo non solo al noto Hector Bélascoaran di Paco Ignacio Taibo II, ma anche al meno fortunato (perché sottorappresentato in Italia) C. Card, protagonista dell’incredibile Sognando Babilonia di Richard Brautigan (Marcos y Marcos). In ogni caso, questo scarso realismo dei romanzi noir degli albori, ormai vero e proprio luogo comune della critica letteraria di genere, andrebbe ripensato: sembra infatti il riflesso di una valutazione negativa della letteratura (soprattutto cinematografica) successiva ispirata ai romanzi dell’epoca, retrospettivamente proiettata.

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Wednesday, October 07, 2009

Hugues Pagan: Quelli che restano


“Secondo la leggenda, Lester Young, alla fine della vita, parlava solo con i morti. Si era inventato un linguaggio tutto suo -o tutto loro… E così aveva capito tutto, anche le cose più sgradevoli, quelle che uno preferirebbe non aver mai saputo. La leggenda aggiunge che un giorno, colui che i suoi pari riconoscevano come il più grande sax tenore della sua generazione, colui che tutti chiamavano ‘Presidente’, se ne andò da solo, senza lasciarsi nulla alle spalle, a parte poche frasi teneramente pudiche, contenuto tragico e acume disilluso, da cui traspariva la splendida e pacata amarezza che è la tremenda prerogativa di quelli che, fin dall’inizio, hanno capito che non ne avrebbero fatta molta, di strada…”(1)


Parigi, primi anni novanta. Chiusi (malamente) tutti i rapporti con l’“Usine”(2), il “vecchio” Chess(3), ex sbirro tutto d’un pezzo, passa la vita tra bottiglie di whisky, fumo di sigaretta e polverosi vinili jazz, nell’attesa che il male che da tempo gli trapana i polmoni(4) se lo porti via. Quando l’antillese Fortune tenta di assumerlo per indagare sulla morte dell’avvenente prostituta Velma, fatta fuori sul “posto di lavoro”, in avenue de Gravelle, in quello che, se non fosse per l’archiviazione troppo rapida del caso, potrebbe sembrare il banale e cruento attacco di un agguerrito concorrente, il detective decide di tenersi fuori dalle indagini; poi, le strane incongruenze emerse nel corso di un primo, rapido, giro tra gli informatori e il ricordo (troppo vivido) degli occhi della vittima -grandi occhi “malva e dolci, con un alone ardesia attorno all’iride”(5)- lo costringono a tornare sui suoi passi e a ributtarsi, a bordo della sua vecchia Pontiac Firebird, per le strade di una metropoli notturna e insidiosa. Ma la decisione di indagare gli costerà cara: oltre a portare in luce la sporcizia e la corruzione del dipartimento di polizia e della divisione della quale, un tempo, ha fatto parte, Chess si vedrà sfuggire tra le mani -impotente come tutti “quelli che restano”- la possibilità di un ultimo, disperato amore…

Secco, crudo, deprimente o meglio sconsolante (nel senso positivo del termine), come possono esserlo solo i romanzi che pretendono di dire “tutta la verità”, in barba alle esigenze di mercato e in spregio alle aspettative dei lettori “medi”, Quelli che restano, è una di quelle rare opere in grado di portare sulla scena un personaggio “duro e puro” –un incorruttibile sognatore rivestito alla meglio dei panni del cinico- senza dissolvere la spessa cappa di fumo e nebbia che avvolge una società realisticamente dipinta come un’unica, grande macchia grigia(6), e senza che il sistema cominci a stridere e scricchiolare.
Spesso paragonato a Jean-Patrick Manchette (probabilmente per schieramento politico o in quanto “figura principale” di un determinato periodo del noir francese, come l’autore di Piccolo Blues lo era stato nel decennio precedente), Pagan crea il suo romanzo con modi diametralmente opposti(7) a quelli del “behaviorismo manchettiano”, puntando su un’interiorità manifesta nella narrazione in forma quasi monologica: Quelli che restano è, infatti, una racconto in prima persona che spesso si apre alle divagazioni del protagonista-narratore; è una riflessione personale, dolente, giustamente sconnessa, talvolta reticente (ma in funzione realistica e mimetica, e non per creare inutili, decorativi, effetti sorpresa), fitta di riferimenti metatestuali(8), inframmezzata da brevi (ma essenziali), rapidissime, sequenze d’azione, e chiuso da un'imprevista coda metanarrativa.

Scritto nel 1993, come seguito dell'altrettanto riuscito Dead End Blues(9), Quelli che restano, da tempo quasi introvabile in Italia, viene oggi riproposto in edizione tascabile da Meridiano Zero.



(1) Hugues Pagan, Quelli che restano, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 7 (traduzione di Alberto Pezzotta).
(2)Il termine traduce perfettamente quello di “Factory” in uso nel noto ciclo di romanzi di Derek Raymond; questa convergenza -probabilmente incidentale- è, comunque, solo la prima e la più superficiale di una serie di ovvie analogie. Si noti, per esempio, il rigorismo morale, il carattere incorruttibile e granitico e la disposizione empatica nei confronti delle vittime dei due protagonisti, oltre che l'impegno in vista della soluzione di casi "lontani dai riflettori" e generalmente considerati di scarso interesse.
(3) Il soprannome rimanda alla famosa etichetta discografica fondata nel 1950 da Leonard Chess. La storia della Chess e del suo fondatore è stata recentemente ricostruita, in maniera romanzata ma credibile, nel film Cadillac Records, scritto e diretto da Darnell Martin.
(4) La malattia, pur mortale, spesso si manifesta al protagonista sotto forma di un “semplice”, fastidioso, mal di schiena, o poco più, come a volergli impedire una delle ultime forme di eroismo che gli siano consentite: la stoica resistenza al dolore.
(5)Ivi, pp. 35-36.
(6)Lo scioglimento del tradizionale, manicheo, dualismo buoni-cattivi, ormai dato per scontato, e tenuto per punto fermo del genere, è in realtà ancora sottoposto a periodiche crisi e improvvise ricadute: si pensi, per esempio, alla mini-serie televisiva Flics e ai film di Olivier Marchal, che, pur essendo, in media, riuscitissimi, ricreano, qua e là, rigide opposizioni dal tono ingenuamente classico.
(7)O almeno all’opposto del Manchette più noto ed influente, quello dei romanzi narrati in terza persona.
(8)Particolarmente evidenti, come sempre nei romanzi di Pagan, quelli alla cultura americana, dalla musica (principalmente jazz, ma anche blues e rock & roll anni '50) al gusto quasi pop per determinati oggetti (spesso, ma non necessariamente “vintage”), passando per la letteratura (in questo caso non solo di genere: a pagina 201 si legge, con chiaro riferimento a Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald “Anche lui credeva alla piccola luce verde dall’altro lato della baia”).
(9)Da Dead end Blues, sempre edito da Meridiano Zero, è stato recentemente tratto il film Diamante 13, scritto e diretto da Gilles Béhat (ma all'adattamento hanno partecipato anche Olivier Marchal e lo stesso Hugues Pagan), e interpretato da Gérard Depardieu, Olivier Marchal e Asia Argento.

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Thursday, October 01, 2009

Edward Bunker: Stark


-Ce l’hai un nome?- le chiese. -O vuoi che ti chiami solo «bellezza»? -Altrochè se mi ci puoi chiamare, ma il mio nome è Dorie Williams […] Tu, invece… come hai detto che ti chiami? -Stark -Stark. Splendido. Un uomo di poche parole. Mi piace. -I fatti contano più delle parole. Così sono io.(1)

California, 1962. Ernie Stark è un criminale di mezza tacca, un piccolo truffatore, un eroinomane “per svago”, che si atteggia da Humphrey Bogart e si sente pronto per il grande salto(2); ricattato dall’ottuso tenente di polizia Patrick Crowley, che vuole risalire al fornitore dell’hawaiano Momo, unico spacciatore di Oceanview, Stark decide di servirsi della sua nuova posizione di “confidente” per fare le scarpe all’amico, ripulire la piazza e prendere in mano il traffico di stupefacenti locale. L’incontro con la biondina Dorie Williams, amante di Momo, non fa che rinsaldare i suoi già fermi propositi criminali, ma il grottesco e sospettoso sordomuto Dummy -amico e braccio destro dello spacciatore- sembra essere sempre in agguato, e poi forse Stark si sbaglia riguardo alla provenienza dell’eroina, e, tutto sommato, la scalata della mala locale potrebbe rivelarsi più difficile (e pericolosa) del previsto…

Scritto a metà degli anni ’60 nel corso di una delle numerose, giovanili, “gite al fresco”(3) di Edward Bunker, Stark, rimasto inedito anche negli USA fino al 2006, non brillerà forse per l’originalità dell’intreccio o per le scelte tecnico-narrative (tutt’altro che rivoluzionarie), ma il suo valore va molto oltre il semplice “interesse documentario”: si intravede, infatti, dietro la scrittura ancora immatura del narratore alle prime armi, il talento stilistico del consumato professionista autore di Cane mangia cane e dell’autobiografia Educazione di una canaglia; si coglie, sotto il tono(4) ancora incerto del Bunker esordiente, un primo (e già riuscito) tentativo di elaborazione delle storie, degli ambienti e dei personaggi che hanno fatto la fortuna delle sue opere più celebri.
Segnato da un alone di bonaria misoginia(5) che ne rafforza i legami con l’hardboiled dell’epoca classica, Stark si allontana dai modelli per un certo spavaldo ottimismo che non nuoce alla costruzione dell’intreccio, ma tradisce l’ingenuità del giovane autore, concretizzandosi in un ironico e “dolceamaro” finale che esclude il romanzo dal genere noir in senso stretto(6), e lo avvicina all'ormai classico Anonima Carogne (non a caso uscito proprio nel 1962…), di Richard Stark.
Meraviglioso il personaggio del protagonista, posto all’incrocio tra due tendenze tipicamente americane e particolarmente attive negli anni '60: da un lato un antiborghese spirito d’improvvisazione, sulla linea dello spontaneismo pittorico di Jackson Pollock(7) e dello sregolato gusto be-bop del coevo The Black Saint and the Sinner Lady di Charles Mingus(8), e, dall’altro, una freddezza razionale, una machiavellica abitudine al calcolo che è la controparte criminale dello spirito (strettamente liberale) d’arrampicata sociale, la declinazione apertamente illegalista del mito del self made man.
Impedibile per i fan di Bunker e per gli amanti del nero americano degli anni ’60; vivamente consigliato a tutti gli altri.

Il romanzo Stark, di Edward Bunker, è edito in Italia da Einaudi.



(1)Edward Bunker, Stark, Einaudi, Torino 2008, pp. 17-18.
(2) “Ernie Stark non era la persona più per bene sulla terra. Chiedetelo agli amici. Sempre che li avesse. Era un imbroglione di mezza tacca che sognava costantemente di fare il colpo grosso. Quello che lo avrebbe fatto vivere da gran signore. Ma il più delle volte restava fregato. Se non dal pollo di turno, dalla polizia”. (Ivi, p. 3)
(3)All’epoca della stesura del romanzo, Edward Bunker, poco più che trentenne, stava scontando la sua quinta condanna in carcere.
(4)La scelta del termine è tutt’altro che casuale: parlo deliberatamente di “tono” pensando alla “voce dello scrittore” e a quella del personaggio (che, in regime di focalizzazione mista, ma prevalentemente interna, influenza non poco la narrazione), anche perché, in Stark come in Cane mangia cane, le storie non sembrano “scritte” e “lette”, ma raccontate con uno stile che traduce la spacconeria del piccolo criminale e la pianificazione del racconto tipica del bugiardo professionista, e ascoltate direttamente per strada o nei bar. Questa prima scelta stilistica, alla quale Edward Bunker si è poi mantenuto fedele, rispecchia perfettamente la tendenza all’oralità –effetto dei modi narrativi dei romanzi hardboiled della scuola dei duri? retaggio della rivoluzione linguistica beat?- tutt’ora rintracciabile in buona parte del noir americano -penso, per esempio, a Elmore Leonard e al suo spiazzante precetto “If It Sounds Like Writing, Rewrite It” (cfr. Elmore Leonard, Elmore Leonard's 10 Rules of Writing, William Morrow & Company, New York 2007)-.
(5)Si tratta di un atteggiamento presente in maniera non esclusiva, e, tuttavia innegabilmente presente nell’hardboiled e nel noir degli albori (se ne trovano tracce, tanto per limitarsi agli esempi più ovvi, nel classico Il grande sonno di Raymond Chandler e nell’hammettiano Falcone Maltese, in Giungla d’asfalto di W.R. Burnett e in Nightfall di David Goodis; l’espressione più compiuta è violenta è comunque da rintracciare tra le pagine di James M. Cain), che ,entro pochi anni, sarebbe stato duramente criticato nell'ambito dei primi studi femministi.
(6)Perché nel noir, per definizione, “il crimine non paga”.
(7)All’epoca della stesura del romanzo, il pittore era scomparso da 6 anni (in seguito ad un malaugurato incidente automobilistico), ma le sue ricerche erano ancora cruciali (e lo sarebbero state ancora per lungo tempo) per le ricerche linguistiche del decennio dei ’60 (non a caso, il suo White Light, del 1954, fu scelto per la copertina dello storico Free Jazz dell’Ornette Coleman Double Quartet).
(8)Tendenza che si riassume, tutto sommato, in un momentaneo accantonamento del motivo politico e della riflessione sulle crescenti tensioni sociali, in favore di un’individualità rivestita di valore infinito. Se nella riflessione di Pollock questa scelta è giustificata su basi junghiane, Mingus sembra piuttosto la fortunata vittima di un'estetica "alla moda", quasi totalmente priva di basi teoriche.

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