Thursday, February 26, 2009

L- Giuseppe Munforte: La prima regola di Clay


Milano, un quartiere come tanti, in periferia. Nell’umida palestra di pugilato della zona, ricavata in uno scantinato, una banda di ragazzi senza prospettive si rompe le nocche al sacco pesante, spezza il fiato saltando una corda, migliora la tecnica allo specchio o al sacco veloce, si rinforza sollevando i pesi, o si procura qualche livido da esibire con gli amici.
Soltanto Ivano, che tutti ormai chiamano Clay, ha del talento: il maestro Volpe, ex-agonista senza gloria, ha riconosciuto dietro al modo in cui il ragazzo balla e saltella sul ring schivando e boxando di rimessa l’istinto del campione, e per questo lo allena con una cura tutta particolare; ma per Ivano il pugilato non è che un passatempo serale, tutt’altro che un’alternativa al lavoro da aiutante in una carrozzeria che occupa gran parte della sua giornata.
Quando il padre muore, ennesima vittima delle esalazioni di vernici e solventi prodotti nella fabbrica in cui tutti gli abitanti della zona lavorano, Clay sembra assolutamente indifferente, ma in breve si macchia, a dispetto della sua indole tranquilla, di un atroce, inspiegabile delitto…

Secondo romanzo di Giuseppe Munforte, già vincitore, grazie all'opera d'esordio Meridiano (Castelvecchi, 1998), del Premio Assisi, La prima regola di Clay si serve di alcuni cliché della narrazione pugilistica(1) e del romanzo di formazione per tracciare una credibilissima tragedia contemporanea ispirata ai fatti dell’IPCA(2) di Cirié (Torino).
Nel romanzo di Munforte, come nella realtà, miseria economica e culturale, nutrite dalla quasi assoluta mancanza di stimoli e dal pessimismo diffuso, si mescolano alla più profonda miseria esistenziale perpetuando le recenti(3) forme di emarginazione urbana, e svuotandole da ogni possibile via di fuga.
Nonostante l'indubbio valore tematico, è forse nello stile che La prima regola di Clay esprime il suo aspetto più originale: contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, l'autore non si conforma ai canoni del realismo minimalista vigente nel genere, ma narra la sua vicenda con ampie immagini e lunghe frasi ricercate, poeticamente descrittive e inconsuetamente cariche di aggettivi, non per vanità, non per un gratuito sfoggio della sua indubbia abilità linguistica, ma per restituire al lettore l’atteggiamento sognante, la disposizione alla contemplazione estetica e l’amore per la cultura(4) che sembrano offrire al narratore intradiegetico l’unica via di scampo dalla sua condizione di vita.

Il romanzo La prima regola di Clay di Giuseppe Munforte è edito da Mondadori.



(1)Il valore metaforico del pugilato come rappresentazione plastica e fin troppo esplicita della lotta per la vita, in genere tanto ben occultata dietro la mal-simulata, inconsistente, "cortesia" o la "solidarietà" borghese, si è affermato fin dai racconti di Jack London (si vedano, per esempio i drammatici Una bella bistecca e La sfida).
(2)L’IPCA (Industria Piemontese dei Colori di Anilina), fondata nel 1922 è passata alla storia per il caso sollevato da Albino Stella e Benito Franza: entrambi affetti da tumore alla vescica, e preso atto dei molti colleghi deceduti per la stessa patologia (secondo una recente ricerca INAIL sarebbero 168 i dipendenti morti di cancro), i due operai avevano sporto denuncia contro la fabbrica. Nel 1977, al termine di un processo durato 5 anni, titolari e dirigenti dell’azienda vennero condannati per omicidio colposo.
I tristi fatti del IPCA sono stati ricostruiti dal regista Daniele Gaglianone nel documentario Non si deve morire per vivere (2005).
(3)Ma saranno poi così recenti? In che modo questi abitanti delle periferie milanesi si differenziano dai “ragazzi di vita” che popolavano le borgate della Roma di Pasolini? E le loro vicende non riecheggiano quelle dei protagonisti dei racconti de Il ponte della Ghisolfa di Testori?
(4) Il rifiuto del lavoro portato avanti dal narratore in nome della cultura ricorda gli atteggiamenti assunti da Arturo Bandini ne La strada per Los Angeles di John Fante, ma mentre quest'ultimo si dedicava alla sua attività culturale con snobismo e violenta convinzione, il personaggio di Munforte, segnato dalla vicinanza di Vera e Clay, deve fare i conti con i sensi di colpa.

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Thursday, February 19, 2009

L- Hugues Pagan: In fondo alla notte


Jacques Cavallier, quarantacinquenne ex-agente della giudiziaria, un passato da dimenticare alle spalle, ha lasciato la polizia e si è imposto l’esilio in provincia. Qui passa le giornate scrivendo articoli di poco conto per un modesto quotidiano, e le nottate ascoltando vecchi LP della “Sun Records”, andando in giro sulla sua vistosa Ford V8 e scolando bottiglie. I colleghi del giornale già lo danno favorito tra i possibili successori dello stanco caporedattore Tellier; poi, un giorno, le ombre lunghe di un torbido passato, un passato da poliziotto di città dal grilletto facile e dalla dubbia moralità, offuscano la sua tranquilla esistenza da giornalista di provincia.
Una serie di ingenti versamenti bancari effettuati da uno sconosciuto, l’intempestiva visita di una vecchia fiamma e di un ex-collega, la scomparsa del vecchio Chess, ex-funzionario della giudiziaria, e un attentato ai suoi danni richiamano Cavallier all’azione, ma alla fine, a dargli la forza di riesumare l’automatica dal fondo di un cassetto, sarà l’amore per la bionda ventenne Anita…


In fondo alla notte, romanzo brevissimo, intenso e odoroso di polvere da sparo (senza per questo risultare pirotecnico nel senso spettacolare, fantastico e anti-realistico del termine) che mantiene, a dispetto di una visibile sproporzione tra l’avvio e lo scioglimento(1), un andamento ultra-serrato e inesorabile, erige la reticenza a sistema. La narrazione in prima persona, fortemente interiore, retta più da un rimuginare continuo su un passato non detto, che su una chiara analisi del presente(2), rende la vicenda quasi impenetrabile fino alle ultime battute; il lettore, allo scuro della maggior parte dei fatti, non può che seguire il protagonista nelle sue incerte interpretazioni fino allo scioglimento finale.
I retroterra politici “suggeriti” e mai “dichiarati”, la corruzione e la tendenza al compromesso diffuse all’interno degli organi di polizia, abbozzate con pochi tratti, la dolente evocazione della tensione tra istinto e senso del dovere da parte di un personaggio che, una volta, in un passato remoto ma non sepolto, ha ceduto alla tentazione di “fare giustizia” piuttosto che “tutelare la legge”, completano un romanzo misuratissimo e stilisticamente perfetto.
Lasciamo che siano gli altri ad istituire facili paragoni tra l’esperienza dell’autore come ispettore della polizia parigina e la visione disincantata del mondo(3) espressa nei suoi romanzi; ormai sappiamo che il realismo letterario è frutto di uno sguardo particolare, non il risultato prevedibile a priori di una serie di eventi personalmente vissuti, e poi Pagan non ha bisogno di espedienti di questo tipo: i suoi intrecci e la sua prosa parlano per lui.

Il romanzo In fondo alla notte, di Hugues Pagan, è edito in Italia da Meridiano Zero.



(1)Le minacce fisiche ai danni di Cavallier iniziano piuttosto tardi e le scene di azione propriamente dette occupano uno spazio relativamente ridotto, eppure fin dalla prima visita del protagonista in banca, fin da quel “Martin non mi credeva. Il boccone da mandare giù era aspro come il fumo di quella sigaretta. La prima dopo quindici mesi.” (H. Pagan, In fondo alla notte, Meridiano Zero, Padova 2009, p. 6.), il lettore sa che il personaggio si trova sull'orlo del baratro; anzi, è proprio l’aria da catastrofe imminente che si respira, inspiegabilmente, fin dalle prime pagine, a conferire a In fondo alla notte gran parte del suo fascino da noir neo-classico.
(2)Che il lettore non si aspetti dei chiarimenti nel senso classico del termine, neppure sul finale (anche se l’autore non sa resistere a una piccola ricostruzione operata con le informazioni parziali reperite dal bonario Fabre): Pagan non fa sconti, e il suo protagonista non si sbottona mai.
(3)Anche perché, ridurre il lavoro di un autore come Pagan ad una semplice ri-sistemazione della realtà equivarrebbe ad annullare completamente la dimensione meta-narrativa dei suoi romanzi (all’interno della quale il protagonista-lettore intradiegetico appare come versione realizzata del lettore extradiegetico: mentre questo si limita a fruire passivamente dell'opera d'arte, il protagonista modella la propria intera esistenza su basi letterarie), il suo gusto per la citazione, a trascurare la sua cultura letteraria, cinematografica e musicale.

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Monday, February 16, 2009

M- Borah Bergman Trio "Luminescence" e Feldman, Caine, Cohen, Baron "Secrets"

In uscita in questi giorni, per conto dell’etichetta discografica “Tzadik”, fondata da John Zorn nell’ormai lontano 1995, Luminescence del “Borah Bergman Trio” e Secrets di Feldman, Caine, Cohen e Baron.

In Luminescence che esce a sei anni di distanza dall’acclamato Meditations for Piano, esordio di Bergman su “Tzadik”, il pianoforte(1) passa senza soluzione di continuità dal “classico” quasi-romantico all’etnico (scale “arabe” e “orientali” a profusione con un’ovvia propensione per le sonorità minori armoniche), dalla ballad bianca(2) alle ritmiche afro-americane, dal folklore mittel-europeo al contrappunto barocco e alla dodecafonia(3) intesa come sonorità, come atmosfera, piuttosto che come tecnica o insieme di regole compositive e formali, e trattata alla stregua degli altri materiali sonori, secondo la prospettiva formalista(4) e stravinskyana che si è imposta nel jazz fin dall’epoca classica.
Da non perdere l'ultra-sfaccettata Opacity e la complessa Luma, che accoda ad un incipit piuttosto convenzionale un incredibile campionario di fonti sonore solo apparentemente discordanti.

Differente nelle scelte formali e nel contenuto specifico, ma frutto della medesima impostazione, sinteticamente meno impegnativo, ma non per questo meno interessante, Secrets, primo lavoro del quartetto composto da Mark Feldman (violino), Uri Caine (piano), Greg Cohen (contrabbasso) e Joey Baron (batteria), propone la rilettura in chiave swing(5) di una serie di melodie hassidiche delle dinastie di Lubavitch, Satmar, Bobov e Modzitzer Hassidim(6).
Da segnalare almeno le incredibili Chabad Nigun e Z'chor Hashem, luogo di un improbabile incontro-scontro tra Thelonius Monk, Stephane Grappelli e Jacob Jacobs.

Due album impedibili che conciliano sperimentazione linguistico-musicale e potenza evocativa, ricerca sonora ricca di citazioni colte e orecchiabilità.



(1) Il trio, composto da contrabbasso, percussioni/batteria e piano (ai quali si unisce, solo in Luma, quinta traccia dell’album, il sax dell’impegnatissimo John Zorn, che ormai si destreggia tra una coppia lavori propri e almeno un paio di partecipazioni l’anno), si articola intorno al tocco ed alle doti del titolare della formazione, abituato ad esperienze da solista.
(2) Si vedano, ad esempio, gli avvii delle belle Parallax e Candela, che rimandano ai grandi classici del cool jazz e della west coast pianistica.
(3) Ovvie sono, nell’album, le eco dai lavori del secondo espressionismo viennese; vengono in mente, in particolare, i primi due movimenti del Kammerkonzert per pianoforte e violino di Alban Berg.
(4) Ma d’altra parte la mistica alla quale l’album di Bergman fa riferimento dal titolo all’immagine di copertina, è fatta di ripetizione, non di creazione, e poi, parafrasando Walter Benjamin, è proprio attraverso la giustapposizione “esplosiva” di forme differenti, per mezzo d'un lavoro sulla “vita postuma dell’oggetto” (in questo caso il materiale sonoro scaduto e caricato di nuove valenze) che si chiarisce il passato (musicale) e si crea il nuovo.
Notiamo per inciso, senza la pretesa di esaurire un argomento che meriterebbe di essere trattato in maniera ben diversa, che proprio l’ambiguità e la falsa corrispondenza di formalismo musicale e religioso, la tensione tra esattezza musicale e rituale, definiscono (pur nella loro problematicità) al meglio lo spirito dei due album in esame.
(5) Lo swing è ceramente la tonalità dominante di questo album, ma i musicisti dimostrano di non disdegnare le tinte manouche e "inciampano" in gloriose tirate Bebop.
(6) Si tratta di brani tradizionali tramandati per via orale, la cui esecuzione veniva equiparata ad un’invocazione ultra-semantica; attraverso la musica strumentale (vietata dalla religione ebraica fin dalla distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme operata dai romani nel 70 d.c. e rispolverata solo in tempi relativamente recenti), il suonatore poteva rivolgersi a Dio in maniera sentimentale (e quindi soprarazionale), esprimendo contenuti linguisticamente incomunicabili; facile allora, e fortunato, l’incontro con il jazz che, fin dalle origini, ha lasciato un grande spazio ad un’improvvisazione intesa come espressione immediata di intraducibile istintività e sentimento profondo.

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Saturday, February 14, 2009

L.R. Carrino, "Acqua Storta" e i camorristi gay


Arrestato lo scorso Mercoledì a Secondigliano, Napoli, nel corso delle indagini su un traffico di stupefacenti provenienti dalla Spagna condotte dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna, il ventisettenne Ugo Gabriele, in arte "Ketty", transessuale dedito alla prostituzione ed elemento di spicco del clan camorristico degli "scissionisti" di Scampia.
La notizia, che ha già fatto il giro d'Italia, aprirà probabilmente la strada a una riconsiderazione dei luoghi comuni diffusi sul tema "mascolinità e camorra"; intanto, il fatto da ragione a Luigi Romolo Carrino, e al suo romanzo Acqua Storta, che, proprio in quanto storia d'amore tra due camorristi omosessuali, era stato accusato, da alcuni critici, di scarsa credibilità.
Complimenti allora a L.R. Carrino che, ora possiamo dirlo a ragion veduta, ha saputo ricostruire, attraverso la forma del romanzo, una verità ancora sommersa, riconfermando l'assunto secondo il quale la letteratura è più vera della realtà, e spesso (almeno quando è Buona Letteratura) anticipa la vita.

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Wednesday, February 11, 2009

C- Baz Luhrmann: Australia



1939. L’Europa è in guerra; si vocifera di un’imminente alleanza del Giappone con Italia e Germania, e l’attacco di Peal Harbor non è poi così lontano, ma alcuni rappresentanti dell’aristocrazia inglese, distaccati, come di consueto, dai “volgari” avvenimenti del mondo civile, sembrano non curarsi della catastrofe imminente. È il caso di lady Sarah Ashley (Nicole Kidman sempre a suo agio e in forma ultra-smagliante), pronta a lasciare il Regno Unito per l’Australia, pur di ricongiungersi al marito(1) impegnato in una serie di investimenti nel mercato del bestiame.
Giunta nella sconfinata proprietà di “Faraway Dawns”, lady Ashley apprende la notizia della morte del marito, apparentemente ucciso da un aborigeno, e si ritrova unica erede della tenuta e di circa mille e cinquecento “buoi facciatosta”.
Inizialmente decisa a vendere tutto e tornarsene nella natia Inghilterra, la donna scopre le speculazioni di King Carney, unico, disonesto, concorrente del marito in una mega-fornitura di carni per l’esercito australiano, e, un po’ per dare al vecchio affarista ciò che si merita, un po’ per restare vicino al piccolo aborigeno Nullah, recentemente rimasto orfano, decide di impegnarsi in prima persona nello spostamento dei buoi; la aiuterà il rude Drover (Hugh Jackman, X-men, Codice: Swordfish, Van Helsing), esperto mandriano…

La regia di Luhrman è decisamente convenzionale; la pellicola funziona, nonostante alcune scelte inspiegabili (2), finché si mantiene su toni da western classico e romantico (3), ma scade via via che il secondo tempo procede, fino a lasciare l’amaro in bocca(4).
Più che un mea culpa o un omaggio (in fondo Luhrman all’epoca dei fatti narrati non era neppure nato; perché dovrebbe sentirsene responsabile? Ma allora perché fingersi toccati?) il film sembra una piccola(5) rassegna di luoghi comuni da neo-moralismo d’occasione, inseriti in una cornice ultracommerciale che miscela western e melò, romanzo (cinematografico) di formazione per genitori(6) e bambini, parentesi drammatiche e amorose, e poco ispirate sequenze da war-movie.
Formidabile, soprattutto da un punto di vista antropologico, il vecchio aborigeno, ancora legato ai modi di vita tradizionali, ma pronto ad accoglie a braccia aperte il “buon colono”(7).
Altro che svolta sociale di Luhrmann: Australia è un film che tenta di accontentare tutti senza parteggiare per nessuno; un’opera strettamente politica nel senso strisciante del termine (o meglio tutt’altro che politica...).



(1)Mr. Ashley è da tempo assente, tanto che la protagonista teme che si sia rifugiato tra le braccia di un'altra donna.
(2) A che pro quelle intricate riprese aeree che nulla aggiungono alla sequenza della morte della madre di Nullah (anzi, nuocciono alla già scarsa tensione emotiva)?
(3) Non sgradevoli i fondali ridipinti alla King Vidor, unico sfogo offerto da Australia al gusto kitsch che nei precedenti lavori di Luhrmann si esprimeva negli interni insopportabili.
(4) Diciamolo chiaramente: non si tratta di amara riflessione, ma di semplice delusione estetica.
(5) Ma neanche troppo piccola, considerate le quasi tre ore di pellicola, rese ancor più insopportabili da una regia ultra-piatta.
(6) Si veda il mutamento di prospettiva di lady Ashley rispetto al viaggio di Nullah.
(7) Che cosa poi questa associazione possa voler dire, soprattutto all’interno di un film che, almeno secondo le dichiarazioni del regista, dovrebbe essere dedicato alla “generazione rubata”, quella dei bambini meticci sottratti ai genitori per essere ri-educati da “bianchi”, toccherà a Luhrmann spiegarcelo…

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Monday, February 02, 2009

L- André Héléna: Un uomo qualunque

Un tempo, il giovane parigino Balthazar Bornillot aveva un lavoro normale, onesto, rispettabile; poi, l’amore per la bella Gisèle lo ha spinto a cercare una scorciatoia, un modo per passare, con un rapido salto, dalla relativa, misera, tranquillità dell’aiuto di bottega, alla facile agiatezza del malvivente. Ma i criminali, si sa, difficilmente scendono a patti con ragazzini sprovveduti o complici alle prime armi, e se lo fanno sono pur sempre pronti a tornare sui loro passi. Così Bornillot, coinvolto in un colpo teoricamente perfetto e destinato a restare impunito, si ritrova con l’intera banda di Scipioni alle calcagna. E man mano che la scia di cadaveri che, nella sua inutile lotta per la sopravvivenza, si lascia alle spalle, si allunga, anche la polizia inizia ad interessarsi al caso…

Non c’è aggettivo migliore di “classico”(1) per definire Un uomo qualunque di Andre Héléna; Le demi-sel, romanzo scritto, probabilmente tra la fine degli anni '40 e i primi anni ’50(2), da un autore poco oltre la trentina, già molto prolifico ma poco amato da librai ed editori, è infatti un polar prima maniera, denso, cupo, scuro, umido, nebbioso, spiccatamente tragico(3), il cui stile meraviglioso trova un valido paragone letterario solo nella Trilogie Noire di Malet, o nelle migliori pagine di Simenon (si pensi, ad esempio, a La casa sul canale, Pioggia Nera, La neve era sporca, I fantasmi del cappellaio).
La tematica, cara al realismo poetico dei tardi anni ’30, dell’uomo disperato che individua un’occasione di riscatto in un amore ideale, altissimo e incontenibile, per ritrovarsi tradito o beffato, l’ultima via di scampo dalla miseria dell’esistenza negata in extremis, è qui tracciata con le tinte forti tipiche del clima letterario che ha visto la nascita di capolavori quali J’irai cracher sur vos tombes di Boris Vian e La vie est déguelasse di Léo Malet.
Il protagonista, un semplice garzone di bottega, un "uomo qualunque", povero ma onesto, si trasforma, per via di un paio di passi falsi(4), nel prototipo dell’homme traqué tanto caro alla letteratura nera (si pensi, per esempio, al classico Rififi di Auguste Le Breton) e al cinema polar (esemplari Frank Costello faccia d’angelo e Le cercle rouge, entrambi di Jean-Pierre Melville, ma anche Grisbi di Jacques Becker)e, nell'impossibilità di tornare sui suoi passi, sprofonda in una miseria sempre più cupa, fino a soccombere ad un destino forte e inevitabile.

Un uomo qualunque(4), di André Héléna, edito in Italia da Fanucci, è il romanzo imperdibile di un autentico maestro; una delle migliori riscoperte degli ultimi anni.




(1) Sempre a patto che il termine “classico” non sia preso a sinonimo di “prevedibile”.
(2) Recensori, editori e responsabili di introduzione (l’incredibile Léo Malet, le cui parole entusiaste, dovrebbero valere più di qualunque recensione positiva) e postfazione (Massimo Carlotto e Laurent Lombard) parlano di lui come di un autore imprescindibile, uno dei noiristi più prolifici d’Europa, eppure, è praticamente impossibile trovare notizie precise su Héléna; al massimo ci si imbatte in una data di nascita, il 7 aprile 1919, o un anno di morte, il 1972, che vide l’autore spegnersi in un quasi assoluto silenzio.
(3) Nel caso di Un uomo qualunque, il riferimento alla tragedia classica è giustificato non solo dalla presenza di un destino prepotente e indomabile, che decreta la sconfitta di ogni personaggio (dal capobanda senza speranza, al braccio destro sfortunato, dal protagonista, un demi-sel, un quasi-innocente, al poliziotto che attende impotente l’avverarsi di un’inevitabile tragedia familiare), ma anche dal rispetto delle regole di unità di luogo e di tempo: l’intera vicenda dura poco più di una giornata e gli spostamenti, che avvengono rigorosamente a piedi, sono ridotti all’essenziale.
(4) Un uomo qualunque è il secondo capitolo del ciclo Le compagnons du Destin, concepito come un’antologia di forme del malessere tipico del secondo dopo-guerra; l’ovvia associazione tra gli ambienti descritti da Héléna, e la Parigi livida e sbrecciata (anche moralmente) dei film di Carné, (le vie vuote e desolate percorse da Balthazar richiamano alle mente le strade notturne di Mentre Parigi dorme, e l’impennata finale dell’intreccio prende il via da un delitto passionale che ricorda da vicino l’omicidio di Valentin in Alba tragica) non è dunque così insensata.

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