Sunday, August 31, 2008

L- Philip Roth: Everyman

Tradito, poco dopo i sessant'anni, da una salute fino ad allora ottima, un uomo inizia un lento cammino che lo porterà, di intervento chirurgico in intervento chirurgico, alla sua inevitabile fine; un tempo designer di successo, uomo di grandi appetiti e grandi passioni, il protagonista (il cui nome, tanto la vicenda è e vuol essere esemplare, non sarà mai rivelato al lettore) si scopre invecchiato, stanco e solo, e il riconoscimento, forzato e mai perfetto (“La vecchiaia non è una battaglia, è un massacro”(1), afferma), della sua condizione di mortale, lo costringerà a ripercorrere i propri ricordi alla ricerca di un senso sfuggente…

Materialismo ebraico (in una versione fortemente segnata dal pragmatismo americano), esistenzialismo europeo vagamente annacquato nella traversata transoceanica, vaste letture psicanalitiche, perfetta osservazione anatomica del vitalismo tardo-borghese, gusto per la ricostruzione minuziosa della biografia personale e incredibile lucidità introspettiva convivono sulla pagina facendo di Everyman un’opera di sorprendente verità.

Lo stile, lirico ma mai eccessivo, trascina gli spettatori, atterriti ma affascinati, attraverso le diverse tappe della vita del protagonista con i toni vividi, personali, dolenti della memoria.
Meravigliosi i brani relativi all’infanzia newyorchese (ricordano gli interni ebraici di Malamud), perfetta la ricostruzione dei tre diversi rapporti coniugali, tracciata con pochi, essenziali, tocchi, sconsolanti ma, ahimè tristemente reali le considerazioni relative a vecchiaia e morte, che si impongono come vere protagoniste del romanzo.
Consigliato a chi non vada cercando un’opera rilassante e pacificante; gli altri continuino pure a fare finta di niente.

Il romanzo Everyman di Philip Roth è edito in Italia da Einaudi.


(1)Philip Roth, Everyman, Einaudi, Torino 2008, p. 106.

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Sunday, August 24, 2008

Comunicazione ai lettori


Con grandissimo ritardo segnalo ai lettori l'iniziativa "Destinazione Noir. piccoli crimini di una vacanza" (con un titolo così poteva forse mancare una segnalazione su questo blog?) indetta da www.iogiro.com (un portale a cura di CTS italia). L'iniziativa, a partecipazione gratuita, è articolata nelle tre categorie "blog" "foto" e "video", e prevede l'assegnazione di 180 "guide noir" della giovane casa editrice padovana Alet.
Per informazioni consultate Destinazione noir.

Affrettatevi, il termine per la presentazione delle opere è fissato per il 15 settembre.

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L- Joe R. Lansdale: La sottile linea scura

Dewmont, Texas Orientale, 1958. Il tredicenne Stanley Mitchell Jr. e la sua famiglia (il padre ex-meccanico, la madre Gal e la sorella maggiore Caldonia) gestiscono un piccolo drive-in di provincia. Gli anni ’60 sono alle porte, ma la città è lontana, e la vita del paesino, ancora immerso in un clima da inizio ‘50, scorre tranquilla e senza sorprese tra piccoli pettegolezzi e scherzi più o meno innocenti; poi un cofanetto contenente vecchie lettere d’amore viene ritrovato nel boschetto adiacente al drive-in. Richard inizia incuriosito la lettura di centinaia di vecchi fogli ingialliti, ma un terribile segreto, sepolto nel passato della comunità, balza lentamente fuori dalle pagine.
Con l’aiuto della sorella Callie e del vecchio proiezionista Buster(1) il ragazzo decide di far luce sulla morte della giovane Margret Wood, autrice delle lettere, misteriosamente scomparsa nel 1945, ma per portare a termine le indagini dovrà vedersela con un fantasma senza testa che infesta la ferrovia, un predicatore folle, un nero geloso e manesco ed una coppia di insopportabili possidenti.

In La sottile linea scura si ritrovano tutti i temi classici dei romanzi di Lansdale, dall’amicizia ai rapporti razziali, dalle relazioni familiari al senso dell’onore, dall’orgoglio della working class alle contraddizioni dell’adolescenza.
La narrazione, piacevolmente modellata sui clichés del cinema anni ’50, è arricchita da una serie di preziosi tocchi vintage (dialoghi usciti dritti dritti da Happy Days, marchi classici, drive-in, coca-cola alla ciliegia e milk-shakes alla vaniglia, cheerleaders, giocatori di football, automobili hot-rod, ragazzi imbrillantinati, letteratura pulp, trasmissioni televisive, cinegiornali ecc.).
Il ritmo è serrato, l’intreccio è ben costruito e privo di tempi morti.

I romanzi di Lansdale sono tanto americani da mettere chiunque a suo agio, abbastanza avvincenti da portare ogni lettore fino all’ultima pagina, ma anche sufficientemente profondi da puntare il dito sulle contraddizioni e i problemi irrisolti dell’America attuale.

Il romanzo La sottile linea scura di Joe R. Lansdale è edito in Italia da Einaudi.



(1) Tra gli archetipi junghiani, molti dei quali utilissimi per le analisi narratologiche, ve ne è uno, quello del Senex, che, almeno nella forma del “vecchio saggio”, svolge un ruolo essenziale nelle fiabe, nei romanzi cavallereschi (es. Merlino), di formazione (Geppetto, ma anche il "grillo parlante" in Pinocchio) o d'avventura. Nel Texas Orientale dell’antirazzista Joe R. Lansdale, autore la cui produzione è costituita quasi per intero da romanzi di formazione, il “wise old man” assume in genere i tratti di un anziano uomo di colore, emarginato perché nero, ma pronto ad offrire al protagonista un aiuto prezioso. Se però il Senex (si prenda per esempio lo “Zio Pharaoh” di L’ultima caccia) si limita in genere a raccontare storie e offrire consigli, o preparare l'eroe per la sua avventura, il vecchio alcolizzato (e dunque, non così saggio) “Buster”, che di questa figura classica della narrazione rappresenta una riuscita umanizzazione, prende parte all'azione in prima persona e, oltre a insegnare a Richard i rudimenti dell’indagine poliziesca (appresi sul campo, ma corretti nel confronto con i romanzi di Sherlock Holmes), viene alle mani con il violento Bubba Joe.

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Tuesday, August 19, 2008

L- F.X. Toole: Million Dollar Baby (Lo sfidante)

Un vecchio ed esperto cutman, scoperto un tentativo di truffa da parte di Hoolie, il promettente pugile messicano per il quale lavora, punisce il ragazzo lasciandogli perdere un incontro valido per il titolo mondiale dei pesi piuma; uno sfidante apparentemente senza speranze stupisce pubblico ed organizzatori dell’incontro interrompendo l’inesorabile ascesa del pugile Dasihki Jones verso il titolo mondiale; la giovane Maggie, cameriera entrata nel mondo del pugilato professionistico in cerca di riscatto, vista la sua brillante carriera interrotta da un incidente che la lascia paralizzata, chiede al suo allenatore Frankie Dunn di mettere fine alla sua inutile esistenza; al termine di un importante incontro professionistico a Philadelphia il pugile Odell Bodeen, deciso a comprare una casa per sua madre con i soldi della borsa, viene decretato perdente da un gruppo di giudici corrotti; “Dangerous Dillard Fightin Flippo Bam-Bam Barch”, giovane peso welter al limite della demenza e poco portato per il pugilato che frequenta con assiduità la palestra Hymns, viene pestato a sangue dal peso massimo Shawrelle Berry (che approfitta di un momento di distrazione dell’allenatore). Il Vecchio Hymn, vecchio pugile in pensione, in persona sale allora sul ring per dare una lezione al gradasso Shawrelle; Henry “Puddin” Pye, giovane e promettente pugile convocato per le olimpiadi di Barcellona, difende la proprietaria di un ristorante messicano dagli assalti di un gruppo di piccoli gangster locali; il capobanda organizza allora una terribile vendetta...

I sei racconti che compongono l’antologia Lo sfidante (Rope Burns), ripubblicata, in Italia e all’estero con il titolo Million Dollar Baby in seguito al grande successo del film diretto nel 2004 da Clint Eastwood, rappresentano una perfetta esplorazione delle possibilità metaforiche del pugilato (la lotta sul ring come lotta per la vita, l’impegno che non sempre, o spesso, non da risultati, l’inevitabile scorrere del tempo, le speranze disattese, l’inconfessata e inconfessabile violenza del mondo, alla quale è impossibile resistere giocando secondo regole, il destino che schiaccia, alla fine, anche i più resistenti…)(1), compiuta però con l’occhio clinico del tecnico(2) e un amore per i particolari da vero appassionato.

Lo stile, scarno e iper-realista, ma anche elegiaco, come fanno giustamente notare i recensori del Guardian, è semplicemente perfetto (Nei racconti di Toole si sente il ritmo della pera, il rumore dei guanti sui sacchi, i respiri affannati, lo scampanellio di fine ripresa…). Le rapide, efficaci, descrizioni fanno da contrappunto a dialoghi ultra naturali(3) che sembrano registrati direttamente per la strada o in palestra.
I personaggi sono credibili, umani, ben approfonditi.
Un piccolo capolavoro del realismo americano contemporaneo, giustamente coronato da un successo del quale l’autore, partecipe delle disgrazie dei suoi personaggi, e con essi solidale fino alla fine, non ha fatto in tempo a godere. (4)

L’antologia Million Dollar Baby di F.X. Toole è edita in Italia da Garzanti.



(1)Non a caso il sottotitolo della raccolta è “Stories from the corner”, come a voler sottolineare la condizione dei personaggi, che, dall’angolo, hanno solo l’illusione di poter cambiare il proprio destino, mentre il massimo che possono fare è aggravare (come nel caso del primo racconto, il protagonista del quale, fingendo di chiudere le ferite del suo pugile, decide l’esito negativo dell’incontro e si prende la sua vendetta…) cose che già per loro conto sono destinate ad andar male
(2) L’autore F.X. Toole (1930-2002), per un breve periodo anche pugile a livello amatoriale, ha lavorato a lungo come allenatore, preparatore e cutman.
(3) Ad anglofoni ed anglofili si consiglia la lettura della raccolta in originale: il vocabolario non è ampio, le conoscenze tecnico-pugilistiche di base sono più che sufficienti per capire gli intrecci, e in questo modo si gode appieno dei dialoghi sgrammaticati, pieni di slang e riportati con un gusto quasi puntiglioso per la trascrizione fonetica delle parlate della strada.
(4)F.X. Toole è morto nel 2002, due anni in anticipo sull’uscita del film che avrebbe dato notorietà alla sua ristretta opera narrativa (usciti i racconti di Million Dollar Baby, l’autore stava lavorando al romanzo Pound by Pound, in Italia A bordo ring, tradotto per Garzanti, pubblicato postumo).

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Sunday, August 17, 2008

L- Juan Bas: Scorpioni in Guazzetto

Lo sfaccendato Pacho Murga, bilbaino di buona famiglia, nonostante i quarant’anni compiuti non ha nessuna intenzione di trovarsi un lavoro, e vive sulle spalle del padre, facoltoso uomo d’affari.
In combutta con un bel giro di scansafatiche, Murga passa la vita tra puntate forti al tavolo della roulette (ovviamente a spese del genitore) e scorribande eno-gastronomiche lungo le vie di Bilbao. La sua vita cambia però quando il padre decide di tagliargli i fondi per costringerlo a darsi da fare: Pacho entra allora in affari con Anton Astigarraga, lunatico alcolista, ma anche esperto chef e geniale ideatore di pinchos(1) sorprendenti (un esempio? “Torrone di foie gras con pinoli, gelatina di bergamotto e granita al caffè di mais”, per pescare a caso tra le centinaia di curiose preparazioni elencate nel corso del romanzo). Insieme Pacho e Anton aprono “Il planisfero di Bilbao”, “il miglior bar di pinchos creativi del pianeta”(2). L’iniziativa sembra destinata ad un grande successo, ma il giorno dell’inaugurazione del locale una minaccia legata al misterioso passato del vecchio chef torna in superficie, e l’ignaro Pacho rischia di rimanere coinvolto…

Uscito nel 2003 e premiato da un grande successo di pubblico in Germania, Francia e naturalmente Spagna, il romanzo Scorpioni in guazzetto del quarantanovenne Juan Bas (i lettori italiani hanno forse avuto modo di conoscerlo attraverso il suo ironico Trattato su postumi della sbornia edito da Castelvecchi nel 2004) viene proposto per la prima volta in Italia dalla casa editrice Alacràn (che si sta lentamente, ma inesorabilmente, affermando come istituzione nel campo del noir in lingua spagnola).
Originario della basca Bilbao, Bas riesce nel difficile intento di criticare, attraverso un romanzo assolutamente comico, gli intollerabili eccessi dei fanatici dell’ETA(3), senza per questo rinnegare la sua patria culturale.
L’indubbia comicità del romanzo, popolato di personaggi esagerati e caricaturali, è purtroppo controbilanciata da uno stile non sempre piacevole, a volte comodamente sboccato, postmoderno in maniera compiaciuta, traboccante di rimandi (a tratti sembrano assolutamente fuori luogo) alla cultura popolare (nei riferimenti cinematografici e musicali ci eravamo imbattuti spesso, quelli fumettistici sono invece pressoché inediti…).
L’intreccio, che si vorrebbe assolutamente sorprendente, ma che in realtà finisce per essere piuttosto prevedibile, soffre un po’ della tecnica narrativa molto convenzionale(4), è assolutamente svalutato dal finale “soprannaturale” ed è troppo appesantito dalle parentesi culinarie… (senza le quali la vicenda non avrebbe occupato più di un centinaio di pagine).
Bello il personaggio di Astigarraga, vero e proprio Edmond Dantès in tenuta da chef.
Originale l’idea, non sempre all’altezza la realizzazione.

Il romanzo Scorpioni in guazzetto di Juan Bas è edito in Italia da Alacràn.


(1)Secondo la definizione dell’autore “I pinchos sono dei piattini di cibo (formaggio, prosciutto, sardine, salame, frutti di mare…) abbinati solitamente a vino o birra e presentati sui banconi o preparati lì per lì e serviti ai consumatori. Sono il corrispondente basco delle tapas con la differenza che nei Paesi Baschi nascono come una sorta di piccoli spiedini e possono presentarsi sotto forma di mini panini o tartine”(Juan Bas, Scorpioni in guazzetto, Alacràn, Milano 2008, p. 276).
(2)Ivi, p. 77.
(3)Ma il discorso, va da se, vale per qualunque lotta, e dietro il romanzo di Bas si intravede un’alternativa democratica e pacifica (che, finché non ci si ferma a pensare, infastidisce un po’, perchè sembra al limite dell'immobilismo reazionario) alle rivendicazioni violente di qualunque gruppo terroristico.
(4)All’azione (quasi nulla) narrata al presente ed in prima persona da Pacho, viene intercalata la lunga rievocazione delle memorie di Anton Astigarraga, con formula cinematografica che sembra non funzionare per il romanzo in questione e finisce per irritare il lettore.

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Thursday, August 14, 2008

L- Jean Echenoz: Un anno

“Victoire si svegliò una mattina di febbraio senza ricordare nulla della serata precedente, poi scoprì Félix morto accanto a lei nel loro letto, fece la valigia prima di passare in banca e prendere un taxi per la Gare Montparnasse”.(1)

Parigi. La bella ventiseienne Victoire conduce una tranquilla e onesta esistenza borghese, almeno finché, svegliandosi una mattina, non si scopre a letto con il fidanzato morto ammazzato ed assolutamente immemore degli avvenimenti della serata precedente; allora, innocente ma incapace di giustificarsi di fronte alla polizia o chiunque altro, inizia una fuga alla cieca lungo un itinerario dettato più dal gusto per la “musica del caso”, dal fascino della scelta irrazionale, seppure mascherato dietro la necessità di far perdere le tracce, che da un qualunque genere di progetto. Intanto l’amico Louis-Philippe, che misteriosamente riesce sempre a raggiungerla a bordo della sua piccola fiat cinquecento bianca, la tiene informata sugli sviluppi delle indagini. Proprio la rottura con Louis-Philippe, per sfuggire al quale la protagonista decide di agire in maniera sempre più imprevedibile, da inizio ad una lenta ma inesorabile discesa agli inferi alla quale Victoire non sa sottrarsi, e che la porterà sull’orlo della disperazione e della miseria. Poi, al termine di un vagabondaggio circolare durato un anno, la ragazza si ritroverà a Parigi, e, posta di fronte ad un’incredibile rivelazione (infondo quasi prevedibile per il lettore, che avverte fin dal principio un senso d’estraneità, d’irrazionalità intrinseco all’universo messo in scena da Echenoz, e che, paradossalmente, costituisce il carattere realistico dell’opera nel senso dell’aderenza alla realtà extra-diegetica), rientrerà miracolosamente illesa nella sua rassicurante esistenza quotidiana…

In Un anno uno stile segnato dalla lezione del Nouveau Roman (basta qualche piccolo accenno ai segni lasciati sulla polvere dagli oggetti per portare alla mente, chissà come, chissà perché, le descrizioni d’interno che aprono il notissimo Nel labirinto di Alain Robbe-Grillet) incrocia un ipotetico intreccio giallo costruito come una parabola politica alla Jean-Patrick Manchette(ma senza il gusto per l’azione)(2), che sfonda tutte le convenzioni del genere e lascia il lettore spiazzato e pensoso.
Interessante, complesso, originale e ricco (a dispetto della sue misere 70 pagine), Un anno è il romanzo ingiustamente trascurato di un autore sfortunatamente poco conosciuto.

Il romanzo Un anno di Jean Echenoz è edito in Italia da Einaudi.




(1)Jean Echenoz, Un anno, Einaudi, Torino 1998, p. 3.
(2)Volendo tentare un paragone forse neppure troppo azzardato, dato che lo stesso Echenoz ha sempre fatto il nome di Manchette parlando dei suoi maestri e riferimenti letterari, il termine di confronto potrebbe essere Piccolo Blues (Jean-Patrick Manchette, Le petit bleu de la côte ouest, in Italia edito da Einaudi): come George Gerfaut nel romanzo di manchette è un innocente catapultato al di fuori della sua condizione borghese e costretto ad una fuga senza speranza (almeno fino al trionfale ritorno), così Victoire è costretta a vagabondare per un anno riducendosi ad un’esistenza da clochard; come Gerfaut, Victoire viene rapinata; come Gerfaut, Victoire trova rifugio, in seguito ad un incidente, in una zona rurale;come Gerfaut viene curato e ospitato dal vecchio montanaro Raguse, Victoire viene raccolta e curata dai neo-campagnoli Castel e Poussin. Come Gerfaut, che, riequilibrata la situazione rientra nei ranghi (“Une fois, dans un contexte douteux, il a vécu une adventure mouvementée et saignante; et ensuite tout ce qui’il a trouvé a faire, c’est rentrer au bercail.” / Un tempo, in un contesto ambiguo, ha vissuto un avventura movimentata e sanguinosa; alla fine tutto quello che ha trovato da fare è stato rientrare all’ovile., Jean-Patrick Manchette, Le petit bleu de la côte ouest, Folio policier, Gallimard, Paris 2008, p. 184, traduzione nostra), Victoire riprende, tornata a Parigi, la sua vita di tutti i giorni. Se però il romanzo di Manchette si gioca su un piano reale, (un borghese diventa avventuriero vagabondo per sfuggire ad una coppia di killer ed al loro mandante, e alla fine, sistemati i tre con mezzi molto poco borghesi riprende il suo posto in seno alla società), quello di Echenoz sembra risolversi tutto sul piano psicologico.

Un’interpretazione possibile, alla quale ci limiteremo ad accennare per non svuotare il romanzo da ogni effetto sorpresa, potrebbe prendere le mosse dai tratti psicologici di una catàbasi conseguente ad un evento luttuoso, chiaramente riscontrabili nell’autolesionista vagabondare di Victoire, dettato dal senso di colpa (motivato o immotivato? il romanzo non fornisce dati sufficienti, anche se, in un dialogo indiretto a pagina 69, uno dei personaggi insinua il dubbio nella mente del lettore); la “risalita” verso il mondo borghese, ha infatti inizio con una ri-conciliazione, una ri-appropriazione del defunto preceduta da un lungo momento di separazione, di volontario, indispettito allontanamento del “fantasma”.

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Monday, August 11, 2008

C- Christopher Nolan: Il cavaliere oscuro

L’eccentrico miliardario Bruce Wayne (Christian Bale), di giorno presidente delle potentissime Wayne Enterprises, si trasforma di notte nel tormentato giustiziere Batman.Inviso ad una parte della popolazione, che ne reclama l’arresto a gran voce, ma anche oggetto di una sorta di venerazione da parte di alcuni cittadini volenterosi che si cimentano in improbabili e rischiosi tentativi di emulazione a mano armata, Batman è l’ultima risorsa del dipartimento di polizia di Gotham nella lotta contro la criminalità organizzata.Convinto dell’onestà e dell’integrità del nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent (un Aaron Eckart che sembra, per presenza scenica ed aspetto fisico, realmente uscito da un fumetto americano contemporaneo), Wayne è pronto ad appendere la maschera da giustiziere al chiodo per rifugiarsi in una ben meritata legalità, ma la comparsa sulla scena criminale del folle Joker (il compianto Heath Ledger, irresistibile nel suo canto del cigno), e il fallimento di una mega-operazione contro un’improbabile super-organizzazione criminale multiculturale e inter-razziale(1), lo costringono a modificare i suoi progetti…

Il cavaliere oscuro, secondo film del regista Christopher Nolan ispirato alle avventure di Batman, stupisce per la sobrietà (relativa) del montaggio, per l’uso limitato di effetti speciali, per l’accuratezza nella caratterizzazione dei personaggi comprimari, per l’aria naturale della fotografia e per le scelte ambientali azzeccate, e risulta molto più piacevole e riuscito del precedente Batman Begins.
L’intreccio complesso ed articolato coinvolge ed avvince lo spettatore, ma si inceppa nel lungo finale ricadendo nel banale e nel melodrammatico.
Poco convincente più per presenza fisica che per scarsa professionalità (come già in Batman begins del 2005) Christian Bale; ineccepibile, come di consueto Morgan Freeman, e ottime le performance di Gary Oldman e Aaron Eckart.
Un posto a parte merita l’indimenticabile prestazione di Ledger, più crudele e folle di Nicholson nel Batman firmato Tim Burton, nei panni di un “Joker” rinnovato nel look e nello spirito, post-modernamente consapevole dei vincoli indissolubili che lo legano al suo antagonista (avrà letto Moby Dick o si sarà limitato a vedere/ri-vedere Unbreakable – Il predestinato?).

L’aspetto politico dei prodotti d’intrattenimento americani del post-11 settembre merita di essere valutato con cautela: che i parenti delle numerosissime vittime dell’orribile attentato alle torri gemelle non abbiano ancora superato il dolore legato alla perdita dei loro cari è sacrosanto; quello che stupisce è che gli americani non siano ancora riusciti ad elaborare delle risposte culturali adeguate al fenomeno, se non riciclando il solito vecchio stereotipo del giustiziere(2) (maledettamente americano nel senso peggiore del termine) che lavora per l’intera società, e che dunque può permettersi di agire come se davvero il fine giustificasse i mezzi.
Il cavaliere oscuro, contrariamente a quanto si potrebbe inferire dalla locandina (dominata da un grattacielo in fiamme che rimanda esplicitamente alla tragedia dell’11 settembre) si mantiene fortunatamente distante (almeno per la maggior parte del tempo) dalle questioni di bruciante attualità, pur toccando tematiche rischiose come il rapporto tra giustizia e legalità.
Le scivolate sul convenzionale messaggio politico non precludono il buono svolgimento del film, che comunque resta più convincente nella rappresentazione della facile e trita favoletta morale della dualità dell’animo umano (plasticamente rappresentata dal mostruoso “due facce” nell’ultima parte del film, ma evocata fin dal principio nel confronto tra i personaggi di Batman e Gordon da un lato e Dent dall’altro).

Gradevole e ben girato, se pur non esente di alcuni dei nei tipici dell’action movie americano contemporaneo, Il cavaliere oscuro ha giustamente catturato l'attenzione del pubblico.


(1) Si fatica meno ad accettare l’esistenza di un miliardario disposto a passare la notti battendo le strade travestito da pipistrello per attaccare i criminali a mani nude, piuttosto che la collaborazione di gangster di colore, russi, cinesi, italiani all’interno di un’unica, micidiale, organizzazione criminale.
(2) D’altra parte, si chiederanno alfieri e rappresentati dell’america da dimenticare, se il “giustiziere” funziona per la sicurezza interna (il che, ovviamente, è tutto da dimostrare, e bisognerebbe che un giorno, amanti e sostenitori dei vari autoritarismi indicassero, statistiche alla mano, la reale diminuzione della criminalità a fronte dell’aumento delle forze di polizia e dei loro poteri, o della mobilitazione dei singoli cittadini armati…), perché non usarlo anche per le questioni internazionali?

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