Thursday, March 08, 2007

C- Jing Wong: God Of Gamblers

Ko Chun (Chow Yun-Fat, tristemente noto al pubblico occidentale per pellicole quali “il monaco” o “Anna e il re” piuttosto che per quelle hongkonghesi, in media molto più degne di nota) è il “re degli scommettitori”; non c’è gioco d’azzardo al quale possa perdere, è un fatto di istinto, di sensibilità (chi mai potrebbe intuire il risultato di un lancio di dadi solo dal rumore prodotto?).
Ingaggiato da un pezzo grosso della yakuza giapponese per battere al gioco un pericoloso ricercato (nonché noto baro) al sicuro solo in acque internazionali, Ko Chun si ritrova inseguito dai tirapiedi di un piccolo gangster ed è tratto fuori pericolo da una guardia del corpo appena assunta. Per evitare le complicazioni legate alla morte di un paio di assalitori si allontana, solo, per una strada buia e sconosciuta cadendo in una trappola sistemata da tre ragazzi del posto.
Scivolato in un burrone, Ko Chun che, in maniera assolutamente anti-provvidenziale viaggia senza documenti, perde completamente la memoria e viene raccolto da “little knife”, colpevole di aver sistemato la trappola.
Attraverso un lungo e tortuoso processo, il protagonista riacquisterà la memoria, e tornerà ad essere il “re”, per sistemare tutti i conti in sospeso...

Ben diretto dal regista Jing Wong, God of Gamblers (1989), che ha dato l’avvio ad una nuova stagione dei “gambling movies” cinesi (oltre che ad un paio di sequel ed un prequel), è un fortunato esempio di Action-Comedy.
Il ritmo, rilassato per tutta la prima parte, e volutamente inesistente nella parte centrale (quella che vede Ko Chun privo di memoria) subisce incredibili accelerazioni nelle scene d’azione, tutte ben coreografate e dirette con gusto, per toccare punte quasi frenetiche sul finale (si tenga conto che lo scioglimento della trama, stagnante, o quasi, per più di tre quarti d’ora, avviene in quindici minuti circa).

Tra le molte citazioni che impreziosiscono questa pellicola sicuramente piacevole, da segnalare almeno quella di “Gli intoccabili” di De Palma (che a sua volta rimandava alla famosa sequenza della carrozzina ne “la corazzata Potemkin” di Sergej Ejzenstein), e l’omaggio, nella partita a dadi iniziale, al personaggio di Ocho (interpretato dalla indimenticabile Reiko Ike), protagonista dei b-movies giapponesi “Sex & Fury” di Norifumi Suzuki e “Female Yakuza Tale, inquisition & torture” di Teruo Ishii (ormai divenuti cult, anche grazie alle entusiastiche dichiarazioni di Quentin Tarantino).

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Tuesday, March 06, 2007

M- Richard Galliano: Luz Negra

A sei anni di distanza da “Face to Face” (uscito nel 2001 per Dreyfus Jazz), Richard Galliano torna a far parlare di se con il nuovo album “Luz Negra”.
Registrato in brasile a dicembre 2006 (secondo le dichiarazioni dell’artista, la rottura con la Dreyfus è dovuta al bisogno di sottrarsi ai ritmi pressanti, rompendo inoltre la routine delle registrazioni a Parigi, ormai divenute come un impiego in fabbrica) con la collaborazione dell’ottimo Tangaria quartet (Alexis Cardenas al violino, Philippe Aerts al basso, Raphael Meijas e Amoy Ribas alle percussioni) e del mandolinista Hamilton De Holanda, Luz Negra è composto da 14 tracce, per una durata complessiva di 55 minuti circa.
Le tracce, tutte assolutamente ispirate, oltre che perfette dal punto di vista tecnico, si muovono tra sonorità tipiche del tango, ritmi sudamericani (es “sertao”), atmosfere francesi, sound medio-orientale (si pensi all’arabeggiante “gnossiene”, tutta costruita su scale minori armoniche), senza mai trascurare la tradizione musicale mediterranea.
La formula è quella collaudata (ma ancora efficace) degli album precedenti, pezzi ben scritti e ben arrangiati, in genere retti da contrabbasso/basso e dall’inimitabile suono della musette.
Richard Galliano, uno dei pochi fisarmonicisti jazz ad aver raggiunto fama mondiale, si riconferma un maestro nell’evocare atmosfere differenti, spesso allegre e solari, rasentando una dimensione onirica, o forse quella dei vaghi e felici ricordi infantili; la sua musette sembra in grado di esprimere la gamma completa dei sentimenti, parlando di perdita, di sconfitta, di passione, tradimento, ma anche di gioco, di allegria, di cortili assolati…
Da segnalare, in questo splendido album, la bella versione di “Escualo” di A. Piazzola, il nuovo arrangiamento di “Fou Rire” (pezzo già noto ai vecchi fan di Galliano), la romanticissima “Sanfona” e la splendida “Guarda che luna” (che, secondo chi scrive, meritava da tempo una rilettura in chiave jazz).
Disco immancabile nella collezione degli amanti di un certo genere di Jazz moderno, Luz negra (anche grazie alla brevità delle tracce e dunque degli assoli) non deluderà neppure i neofiti.

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M- Grinderman: Grinderman

In uscita in questi giorni l’album d’esordio del nuovo progetto di Nick Cave, i Grinderman.

L’artista, dichiaratosi stanco del sistema produttivo vigente (“fai uscire dodici o tredici canzoni, fai un tour di un anno, aspetti che la gente si dimentichi di te e poi torni in sala di incisione”) e troppo prolifico per adattarvisi, affianca agli ormai collaudatissimi (come non dire esauriti?) Bad Seeds questo progetto parallelo.
Il nuovo album del cantautore australiano risulta ricco delle già note influenze blues, country, rockabilly, rilette in una chiave rumorosa e sgraziata, oscillante tra distorsione quasi heavy metal (o ancor peggio nu-metal) e atmosfere sperimentali ormai trite e ritrite (probabilmente recuperate da qualche B-side di John Spencer Blues Explosion o simili).
Tutto sembra voler contraddire le dichiarazioni di Cave, dalla brevità dell’album (appena 40 minuti), alla scarsa ispirazione dei testi (dall’orribile “no pussy blues”, manifesto in potenza di una giovane generazione preda di un facile, volgare maledettismo, all’ infelice ballata “Man in the moon” gradevole ma sciocca e tutt’altro che originale).
Unico nota positiva: Cave sembra non aver perso le sue capacità recitative, ma a cosa servono, applicate a testi sempre più insulsi e scadenti?
Quanto ancora dovremo attendere l’uscita di scena di un cantautore la cui poetica sembra essere ormai irrimediabilmente frusta e destinata ad una graduale involuzione (se si considera infatti la produzione di Nick Cave dopo “The boatman’s call”, sembra di trovarsi di fronte ad un lento, ma inesorabile regresso segnato dal recupero delle sonorità giovanili alla Birthday party svuotate da quella rabbia graffiante che ne era giustificazione estetica…)?


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L- Mickey Spillane: Ti ucciderò (I, the jury)


Jack Williams, ex poliziotto tornato invalido dalla guerra, e ridottosi a lavorare per una compagnia di assicurazioni, viene trovato morto nel suo appartamento; è l’opera di un sadico, che dopo aver sparato un colpo da una .45 silenziata al ventre dell’ uomo, si è divertito a guardarlo strisciare sul pavimento per raggiungere la pistola poggiata su di una sedia poco distante,ma, ciononostante, per la polizia, si tratta di un comune caso di omicidio.
Il detective privato Mike Hammer, legato alla vittima da una vecchia amicizia (nata sotto le armi) non ha nessuna intenzione di lasciar fare alla legge, e giura, di fronte al cadavere del vecchio compagno (e sotto gli occhi dell’amico Pat Chambers, capitano della polizia) di trovare l’assassino per sottoporlo allo stesso trattamento.
Quello che sembrava un omicidio isolato e privo di movente, si rivela poi parte di un disegno superiore, volto a coprire un vasto giro di prostituzione ed un traffico di stupefacenti su larga scala, ma per Hammer non fa differenza: il detective è pronto a tutto pur di tener fede alla sua promessa, anche a sacrificare quanto di più caro ha al mondo…

Mickey Spillane, newyorkese, classe 1918, è uno dei più noti ed amati autori noir/pulp a livello mondiale; aviatore, collaboratore dell’fbi ed infine scrittore, esordisce (se si eccettua la manciata di racconti pubblicati su riviste pulp prima della seconda guerra mondiale*) sulla scena letteraria nel 1947 con il romanzo “Ti ucciderò” . Il protagonista Mike Hammer, destinato poi a dare il via ad una serie di interessanti sequel, è una figura unica nel vasto panorama della letteratura noir americana: Individualista incallito, autoironico ma non troppo, duro, spaccone e sciupafemmine, esercita il suo ruolo morale (e moralizzante) con una freddezza esemplare, e senza mai diventare bigotto, o piattamente moralista.

Lo stile di Spillane, sempre affilato, spesso grottescamente realistico, minimale (ma questo sembra essere uno dei tratti comuni della narrativa noir, se si eccettua la ben nota produzione Chandleriana, caratterizzata da una maggiore attenzione agli ambienti ed ai personaggi) eccessivo (almeno per l’epoca) nella messa in scena di erotismo e violenza, è ancora molto efficace.
Interessante la scelta finale di inframmezzare gli avvenimenti con le riflessioni del personaggio (riportate in corsivo) che dilatano il tempo del racconto lasciando il lettore con il fiato sospeso.

Dal punto di vista tematico, da segnalare l’opposizione tra la giustizia (quella assoluta, indifferente a tutti i cavilli e le possibili giustificazioni dei colpevoli ) e la legge (oppressa dalla burocrazia, incapace di reagire con il necessario vigore alla violenza dei criminali), rimasta poi come tema portante di tanta produzione poliziesca popolare (si pensi, a titolo d’esempio, al cosiddetto genere cinematografico “Poliziottesco” italiano).

“Ti ucciderò” è stato portato sugli schermi nel 1953 (è forse l’unico esempio di film noir girato in 3D), per la regia di Herry Essex, risultando però un prodotto mediocre anche grazie all’incauta scelta del direttore di casting che volle l’attore Biff Elliott nella parte del protagonista Mike Hammer.

“Ti ucciderò” è edito da Garzanti.

*L’unico racconto pulp di Spillane attualmente pubblicato in Italia è da ricercare nel volume “American Pulp” edito da Mondadori.

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